«Prendo tremila euro e mi chiamano riccastro»

Fabio Gatti, a 20 anni lei ha esordito in A col Perugia di Gaucci, oggi a 29 è precipitato nel limbo della Seconda Divisione col Lecco. E sì che era considerato una promessa del nostro calcio.
«Proprio questo è il bello e il brutto del calcio, prima si è sugli altari, poi si precipita. Io ho fatto una scelta, ho creduto nel progetto Lecco, una società seria che paga regolarmente gli stipendi e ho firmato per due anni».
Lei è stato con Gaucci, ha riportato il Napoli di De Laurentiis in serie A, è stato nell’Under 2. Si sente un ricco del calcio tale da poter svernare ora nella ex C2?
«Ma quale ricco, col calcio non tutti si arricchiscono. Solo in A, con gli ingaggi che girano, possono fare i nababbi, ma in B e soprattutto in Lega Pro c’è chi non arriva a fine mese».
Nei suoi inizi, quando era considerato il centrocampista italiano più promettente e sembrava dovesse andare al Milan o alla Roma, avrà pur pensato alla bella vita alla quale andava incontro?
«Personalmente non ho mai badato ai soldi, forse ero giovane e incosciente, ma innamorato del pallone e pensavo solo a giocare. L’ho capita dopo l’importanza dei quattrini, quando si ha famiglia e quando nel 2010 mi sono ritrovato a Coverciano con tanti amici al raduno dei disoccupati organizzato dall’Aic».
Dai facciamo un po’ di cifre.
«A Ravenna o Carrara pagano ingaggi di 50.000 euro, ma ho preferito Lecco, anche se guadagno meno. In B, dove spero di tornare presto, qualcuno raggiunge il mezzo milione o forse più, ma gli ingaggi medi sono intorno ai 200.000 euro. La Lega Pro, in fatto di stipendi è un disastro: in Prima Divisione solo Benevento, Sorrento e Spezia danno anche 100.000 euro di ingaggio, mentre in Seconda Divisione si arriva a 42.000 euro, con i giovani al minimo sindacale di 15.000 euro annui più vitto e alloggio. Se gli operai prendono 1.200 euro mensili, noi ne prendiamo 3.000 e con le spese a nostro carico non arriviamo a fine mese. E ditemi voi come può vivere uno che ha famiglia, magari andando anche avanti e indietro per raggiungerla. Ma il bello arriva quando tante, troppe società o falliscono o non pagano in tempo gli stipendi, ti danno le prime due/tre mensilità e poi il resto non si sa. Il giocatore non sa quando prenderà i soldi e allora i casi sono due: o hai messo da parte qualche soldino e sopravvivi, oppure a 27/28 anni sei costretto a smettere di giocare».
Situazione drammatica.
«E non è finita perché chi inizia in C e ci resta fino a 35 anni, poi non sa cosa fare, non ha lavoro e si perde. Ci sono poi i regolamenti che obbligano a far giocare i giovani, lanciati nell’arena allo sbaraglio, con i più anziani che ridimensiano le pretese e vogliono giocare per estremo bisogno. Pensiamo a quelli del ’90 che non trovano posto perché in campo devono andare i ’91. E i disoccupati aumentano».


Lei è pienamente favorevole alle iniziative dell’Aic?
«Eccome, siamo tutti con Tommasi e con i capitani di A perché sono loro che ci mettono la faccia e combattono anche per quelli che stanno dietro. Vedo però molta disinformazione, ma i nostri problemi sono reali. E smettiamola con i ricchi, un 10% sì,ma il resto fa la fame o quasi, anche perché tutti paghiamo le tasse».

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