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Prodi dà l'ultimatum ai suoi Ma lo fanno cadere al Senato

Il premier sfrutta la diretta del Tg3: "L'Unione dica se vuole andare avanti". Ma a palazzo Madama va ko sette volte, poi il decreto passa

Prodi dà l'ultimatum ai suoi 
Ma lo fanno cadere al Senato

Roma - Chiama le telecamere del Tg3 - che a Palazzo Chigi hanno ormai soprannominato «la fedelissima » - e, smettendo la maschera del buon pastore, picchia forte i pugni sul tavolo: «La maggioranza chiarisca se vuole andare avanti! - tuona Romano Prodi - Non metterò la fiducia, ma esigo il rispetto degli impegni e le forze della maggioranza dovranno chiarire se vogliono continuare a sostenere il governo o se preferiscono far prevalere interessi di parte su quelli del Paese!».

Scosso con evidenza dai quattro uppercut rifilatigli al Senato e dal colpo basso ricevuto financo alla Camera, il presidente del Consiglio, sull’orlo del ko decide che è ora di vendere al Paese l’immagine di un uomo solo al comando speronato da interessi particolari e inconfessabili di qualche suo alleato. Gli gioverà? Mica tanto visto che subito dopol’appello il suogoverno viene affossato due volte. Si dice abbia preferito lavare i panni sporchi in pubblico proprio per stanare chi trama nell’ombra.

Ma la decisione di non porre la fiducia sul decreto collegato alla Finanziaria ha invece tutta l’aria del terrore di finire impallinato formalmente e definitivamente. Qualcosa di «visibile» per la pubblica opinione doveva comunque pur farlo Prodi, dopo una giornata che per lui si era rivelata un anticipo giusto di una settimana di Halloween: streghe e scherzettiadogni passo per il suo governo. Ad opera ora di questi ora di quello, ma tutti della sua rissosa e riottosa maggioranza dodecapartitica. Siera cominciato fin dal mattino presto sul temuto ponte di Messina o,meglio, sulla società che ne porta il nome. Trasferirla all’Anas, la soluzione di Tonino Di Pietro. Chiuderla e sbattere la chiave nello stretto, la replica di Rifondazione, comunisti e verdi.

Lite in diretta dal Senato, rinvio in commissione, governo che sene lavava le mani e voto a sorpresa: 160 no alla chiusura, 142 sì, 6 astenuti (a Palazzo Madama questi ultimi valgono contro)proprio negli stessi istanti in cui Bersani, inunconvegno poco distante, irrideva i giornali che davano il governo traballante: «quando si vota, la maggioranza c’è sempre!». Accuse e controaccuse a quel punto tra gli scranni della sinistra inframmezzate dalle notazioni caustiche dell’azzurro Schifani («Di Pietro- governo 1-0») e dalleboutades diDeMichelis che, ri-annunciando il suo ritorno a sinistra non poteva non constatare: «Il governo? Morto. E sarà meglio seppellirlo in fretta per evitare una epidemia... ».

E mentre Franca Rame annunciavaun non inatteso divorzio da Di Pietro, Boselli invocavaunnuovo esecutivo e il diessino Caldarola annunciava il rischio serale di una presa della Bastiglia da parte di Santoro & companyche avevano ri-invitato in trasmissione De Magistris e Forleo col solo scopo «di far cadere l’esecutivo in diretta», ecco un secondo tonfo. Più inatteso perché alla Camera dove la sinistra vantava la forza dei numeri: un emendamento leghista che allargava la platea delle decisioni dall’Anci ad altri tipi di associazioni per la riqualificazione dei centri storici veniva approvato con 241 sì, 185 no e 44 astensioni (del Prc). Che va succedendo?, andava chiedendo Prodi tra un summit col premier austriaco e un faccia a faccia con quello islandese. Manco il tempo di rispondergli e al Senato - inrapida successione - il governo finiva battuto suunaumento del personale dirigentealministero della Giustiziae sulla sperimentazione locale del digitale terrestre.

«Aver tolto a Mastella dirigenti da assumere clientelarmente ci dà un gusto irrefrenabile», sparava lo storaciano Morselli. Calderoli indossava il grembiule da macellaio e spiegava paziente: «Si è avviato il tritacarne e son cominciate a volare le frattaglie. Ora proveranno a riportare il tutto nel budello della fiducia... ». In aula tra commenti e proteste (perMastella che risultava aver votato mentre era in bagno), si alzavano nel frattempogustosi siparietti.

Fosco Giannini, 55enne impiegato marchigiano chiedeva la parola per censurare un servizio del Tg2 sulla gloriosa rivoluzione del 1917 paragonata «a un sanguinoso colpo di Stato»: «E allora - strillava aggrappato al microfono - viva la rivoluzione d’ottobre, viva il socialismo!». Dall’altra parte dell’emiciclo tuonavano contro il riesumatore di Stalin. Finita? Macché. Mentre Di Pietro riprendevaad azzannare Mastella, Bertinotti ci teneva a mettere la parola fine alpresunto equivoco con Prodi del giorno prima: «Se il governo vive, il più contento sonoio.Ma- aggiungeva perfido e mellifluo - prioritaria è una proposta concreta sul terreno della legge elettorale... ». Il che non faceva altro che scuotere ulteriormente Mastella, già innervosito pericommenti al suo deambulare senatoriale e alla bocciatura dei 23 dirigenti (155 a 155): «Bertinotti? Logico la pensi così. Se il governo cade io perdo la poltrona, lui resta presidente della Camera. E la sapete una cosa? Ai tempi della Dc c’erano imorotei, i dorotei e quella che chiamavamo la corrente dei c... nostri. Ecco, l’intervento di Bertinotti mi ricorda quella corrente...».

A sera, dopo nuovi scontri - col capogruppo dell’Udeur che lasciava il vertice di maggioranza alla Camera lanciando insulti ai dipietristi - e mentre si spargeva nell’aria il funereo annuncio dei Comuni (Anci) che per colpa dei tagli toccherà portare i tickets dei bus a 2 euro, Prodi decideva di entrare inscena: volete andare avanti o no? Ah, saperlo.

Anche perché i tre uppercut subiti in Senato dopo l’appello - con la bagarre con la Cdl che protesta per il «recupero» alla toilette di Rita Levi Montalcini da parte di un senatore dell’Unione - sono di quelli che lasciano al tappeto.

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