Pugno di ferro ad Algeri, la protesta soffocata sul nascere

Ad Algeri prima della protesta vien ancora la paura. E che paura. Una paura viscerale, sepolta nel cuore, scolpita nell’animo, aggrovigliata nella pancia. La paura di chi ha vissuto nel terrore, di chi ha visto 200mila connazionali massacrati senza manco saper perché. La paura di una guerra civile che vent’anni fa aprì le porte ad un inferno senza ritorno. Una paura palpabile non appena i primi dimostranti scesi nella centralissima Piazza dei Martiri si ritrovano circondati da migliaia di poliziotti armati non solo di manganelli e scudi, ma anche di armi automatiche. Quel che più preoccupa è vedere, allineati al ritmo degli slogan intonati contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, due fantasmi del passato, due protagonisti degli anni bui. Da una parte Alì Balhadj, ex grande capo del Fronte di Salvezza Islamico, dall’altra quel Said Sadi campione della laicità considerato a suo tempo il più acerrimo nemico dei militanti islamisti. Oggi Said è il capo dell’opposizione, Alì Balhadj uno sconfitto sopravvissuto.
Insieme tentano di risvegliare quell’afflato di protesta che tre settimane fa, sempre sotto la guida del Movimento per la Cultura e la Democrazia di Said Sadi, trascinò in piazza migliaia di persone innescando violenti scontri conclusisi con la morte di 5 manifestanti e il ferimento di 800 persone. Le motivazioni della protesta sono ancora le stesse, la disoccupazione crescente, un insopportabile aumento del costo della vita e la mancanza di alloggi per le giovani coppie. Stavolta però la polizia è decisa a non lasciar spazi, pronta a far rispettare le mai abolite leggi dell’emergenza che proibiscono qualsiasi assembramento e manifestazione. E così i primi manifestanti in arrivo dalla periferia e dai piccoli centri vengono fermati ai posti di blocco all’entrata della capitale. I 1500 che da piazza Primo maggio cercano di mettersi in marcia verso Piazza dei Martiri si ritrovano circondati, manganellati e arrestati.
E così la protesta nata con l’illusione di replicare i trionfi egiziani e tunisini si conclude in poche ore senza manco infastidire Abdelaziz Boutlefika, il presidente autocrate rieletto ininterrottamente dal 1999 ad oggi grazie a un patto di ferro con i militari. La maggioranza della popolazione si guarda bene, del resto, dallo scendere in piazza per chiederne l’allontanamento. E non solo per paura delle manganellate. In fondo in quel lontano 1989 iniziò tutto allo stesso modo. S’incominciò protestando per il costo del pane, si continuò chiedendo la cacciata della vetusta e corrotta classe dirigente del Fronte di Liberazione Nazionale e si finì con gli islamici del Fis ad un passo dalla vittoria nelle elezioni del 1992. Per fermarli ci volle un colpo di Stato dei militari seguito da una lunga e sanguinosa guerra civile a tutt’oggi non ancora completamente terminata.

E così quel ricordo e quella paura del passato sono oggi la miglior arma di Bouteflika e dei militari, il miglior antidoto contro rabbia, fame e voglia di rivalsa, la miglior medicina per bloccare sul nascere qualsiasi contagio di stampo tunisino o egiziano.

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