Occorre molta cautela. Non è una cosa che si possa andare in giro a dire così, con leggerezza. Persino Rilke - principe tra i poeti, che ebbe tutte, ma proprio tutte, nessuna esclusa, le donne che gli capitò di desiderare - osava a malapena accennarlo in una tarda lettera a un'amica: «Appartengo al mio lavoro, al mio lavoro soltanto». Prima di lui, Edgar Degas, ma con toni più incerti, indecisi: «Esiste l'amore, ed esiste il lavoro di una vita. Ma abbiamo un cuore solo». Con Tinto Brass - vivaddio - non dovrebbero esserci dubbi: esiste il sesso. Punto.
Eppure anche lui, il Tinto nazionale, il nostro pornomane di riferimento, il poeta del lato B e delle sue indicibili delizie, ha subito il contraddittorio fascino del lavoro tout court: del lavoro che innalza e del lavoro che aliena, del meraviglioso lavoro che sequestra la mente di ciascun «homo faber» degno di questo nome e del lavoro che invece si è costretti a svolgere come un castigo fatale. «Il lavoro è stato centralissimo nella mia vita, ci racconta. Come il sesso. Secondo me le due cose stanno pure insieme senza problemi». Parallelamente, Brass ha subito anche il fascino del tempo libero, sebbene questo sia un concetto ormai indefinibile. Ma all'epoca no.
Era il 1964, la Milano del boom economico. Il sesso non era ancora diventato né il primo piano né la profondità di campo della cinematografia di Tinto Brass, che in quell'anno stava finendo il montaggio del suo Ça ira - Il fiume della rivolta. Salon Kitty era ancora lontano, e Stefania Sandrelli - nella Chiave («la mia carriera, ci dice, si divide in A. C., prima della Chiave, e D. C, dopo») - ancora di più. L'esperienza alla Cinémathèque di Parigi - dove era arrivato su invito di Lotte Eisner, la storica del cinema espressionista tedesco - si era ormai conclusa: «Un gran periodo. Conobbi Jean Renoir e mi ripromisi: "O divento Renoir o niente". Ecco, oggi sono niente. Però imparai da Jean il potere delle emozioni, del significante, del linguaggio: il significato arriva sempre dopo. Ed è giusto così».
Rientrato dunque nel clima un po' gesuitico dell'Italia del tempo, Brass venne intercettato da Umberto Eco, che del giovane regista aveva visto Chi lavora è perduto, film di tempra anarchica su un giovane disegnatore che al noioso lavoro preferisce il vagabondare per Venezia («me lo contestarono - ci racconta Brass -. All'epoca il lavoro era un tema sacro, intoccabile, incensato da tutti. Io ero più equilibrato a riguardo. Ricordo che a Venezia c'erano 33 sale cinematografiche e 33 casini, in ugual numero... »). Eco gli propose di girare due cortometraggi di argomento simile al film, da proiettare alla Triennale: potremo rivederli oggi alle 19, per volontà di Gianni Canova che li ha recuperati (seguirà un incontro del pubblico col regista). Titolo e argomento: Tempo libero e Tempo lavorativo. Lunghezza: non più di dieci minuti ciascuno. Montaggio: «delirante», ci dice l'autore.
Usando immagini di repertorio e filmati del tempo, Tinto Brass illustrò la sua tesi secondo la quale nella Milano del boom lavoro e tempo libero erano due facce della stessa medaglia: la frenesia, l'irrequietudine dell'esistenza, che veniva letteralmente «consumata» senza però ricavarne piacere. «Infatti i due cortometraggi finiscono entrambi nello stesso modo: nella follia.
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