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Quando tra comunisti e «fasci» il centro andò in frantumi

Se è vero che il Sessantotto è figlio anche della destra? Senza nulla voler rubare agli storici, da cronista posso raccontare quel pezzetto di storia che ho visto e vissuto. Con gli occhi di uno studente pendolare tra Latina e Roma, al terzo anno di Legge alla Sapienza, abbastanza in ordine con gli esami, aveva messo mano a una tesi di laurea sull’esperienza di governo anarchico nella Barcellona repubblicana. Un giovane che nella sua città frequentava la sezione della Fgs, la giovanile socialista, e leggeva Pisacane, Bakunin e Kropotkin. E che sul finire del 1967 andò a Lettere occupata per assistere a un’assemblea. Sconvolgente. C’era tutto quello che doveva esserci, libertà e vita, ragazze e voglia di cambiamento, ancora ragazze, fantasia, spazi aperti e orizzonti sconfinati come nelle canzoni di Lucio Battisti.
Poco dopo, le assemblee ci furono anche a Giurisprudenza, pur se meno affollate e vivaci. Lettere era una roccaforte della sinistra, a Legge invece prevaleva la destra. Le assemblee di Giurisprudenza erano più pacate e tolleranti, certamente più noiose, gli studenti di destra e di sinistra discutevano con toni spesso accesi ma senza squilli di guerra. La sinistra a Legge era rappresentata dal socialista Sandro Amorosino, ora prof e amministrativista, e dal comunista Fabio Lorenzoni che ricordo poi dirigente dei Giovani avvocati. E poi il fuorisede Pinuccio Pisauro, ora penalista di grido. Io e rari altri, completavamo il blocco progressista. Non mancava il centro, pendente a destra, rappresentato da Paolo Togni, figlio del ministro democristiano, e Paolo Napolitano, che ora fa il giudice costituzionale. Poi c’erano quelli di destra, numerosi, con fama di picchiatori ma civili e ordinati, che non parlavano molto. Lamberto Roch, un torrente impetuoso di frasi nervose. I fratelli Di Luia, Serafino che parlava con tono basso e pacato, e Bruno che lo ascoltava in silenzio, mentre tratteneva al guinzaglio un mastodontico pastore tedesco.
Ricordo bene anche Franco Papitto ed Enzo Dantini. Parlavano di Codreanu, di Mishima, di Drieu La Rochelle, di Ezra Pound, di Julius Evola e di una mitica Europa che sembrava quella di Carlo Magno. Sfoggiavano un ventaglio di etichette note soltanto a loro e all’Ufficio politico della questura, Avanguardia nazionale, Primula goliardica, l’Orologio, Ordine Nuovo... Fasci sì ma sincretisti. I nazimaoisti, li ricordate? Credo che siano nati a Legge, proprio in quei mesi. E discutere con Mario Merlino - il «mago» che poi si scoprì coinvolto nelle bombe del dicembre ’69 - offriva un sapore aspro e stralunato, era il primo che incontravo ad aver letto anch’egli Kropotkin. Erano fasci, beninteso. Qualche mese prima i Di Luia avevano malmenato mezza Casa dello studente. Ma fasci in evoluzione, specularmente a Lettere dove i fedeli al Pci erano sempre più in diminuzione. Non tirava vento di violenza, in quei primi giorni del ’68. Ci si annusava.
Presto anche Legge fu occupata. Però a far la notte sui divani del preside restavano pochi fasci. Io una volta sola ho dormito lì, si stava meglio a Lettere. Ma tiravo volentieri tardi a parlare con loro, prima di tornare di là. Non avevo remore a dialogare con quelli di estrema destra. Non che i piccoli leaders a Lettere ne fossero all’oscuro, anzi. Lo sapevano tutti che a Valle Giulia una mano determinante era venuta proprio dai fasci di Legge. Anche in seguito, quando il movimento andò a manifestare per il maggio francese e divampò la guerriglia urbana intorno a piazza Farnese, in quei vicoli erano in azione pure Dantini e i Di Luia, li incontrai.
Ma tornando ai primi mesi del ’68, nell’occupazione della Sapienza non c’era guerra tra sinistra e destra, semplicemente era sparito il centro. Fino al 16 marzo, quando a Lettere era in programma un raduno con delegazioni di altre università occupate, e all’alba il Msi, con Almirante e Caradonna alla guida del servizio d’ordine fedele al partito, calò su Legge esautorando i camerati eretici. La storia di quel giorno è nota, il contrattacco da Lettere, la panca sulla schiena di Scalzone, i non belligeranti di destra sulla scalinata del Rettorato, Almirante portato in salvo giù, a Scienze politiche. È nota e non mi interessa ricamarci. Però, quasi a compensazione di quanto era avvenuto a Legge, si riaffacciarono a Lettere quelli della Fgci, rivendicando l’egemonia del partito. Sino alle elezioni, quando Scalzone fu ricevuto a colloquio dal segretario del Pci Luigi Longo e finì con lo scrivere per Rinascita una roba intitolata «perché voto scheda rossa».


Ora però, quando sento dire che bisogna «archiviare la cultura del ’68», stento a capire. Perché se la cultura da seppellire è quella del «ribellarsi è giusto alle baronie e agli apparati di partito», a me risulta strangolata già nei giardini di marzo di quel mitico anno che non c’è stato.

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