«La terza carica dello Stato deve essere super partes, non può dire “ora non parlo come presidente della Camera” » e dire quel che le pare, soprattutto se poi «è stata eletta da coloro che ritiene irresponsabili, traditori e persino attentatori della democrazia », e se poi esprime «giudizi netti e così polemici senza mettere in dubbio il fatto che parla come singolo parlamentare o privato cittadino e non più come presidente della Camera ». Insomma una terza carica del genere, se proprio vuole fare politica e dare giudizi sugli altri leader, forse dovrebbe «prendere in considerazione anche l’ipotesi di rimettere il mandato ». Ma chi parla qui? Brunetta? Cicchitto? Bossi? Capezzone? Nessuno di loro, è Gianfranco Fini, anzi era, perché il tempo è galantuomo ma anche malandrino quando si cerca una linea di coerenza nelle parabole di certi politici. Per catapultare Fini in una situazione diametralmente opposta a quella di oggi, con le parti esattamente invertite, bisogna tornare indietro di quindici anni, all’inizio del 1995. Si è appena consumato il «cosiddetto » ribaltone della Lega, il primo governo Berlusconi è finito con le dimissioni del Cavaliere, un nuovo governicchio di transizione, guidato da Lamberto Dini, è alle porte. Nel mentre, sulla poltrona più alta di Montecitorio siede ancora una deputata della vecchia maggioranza, la leghista Irene Pivetti, che lì rimarrà fino alle successive elezioni del ’96. Qualcuno però, in quel febbraio, chiede con forza le sue dimissioni, dopo un discorso molto partigiano della Pivetti a una festa della Lega a Milano. La fotocopia di quel che sta accadendo in questi giorni, con lo strappo di Fini a Mirabello e il suo discorso da leader politico, contro la maggioranza che lo ha eletto, ma sempre da presidente «super partes» della Camera. Anche quella volta, molti di coloro che chiedono le dimissioni di Fini adesso invocarono l’incompatibilità dell’allora presidente della Camera in quel ruolo di garanzia. Francesco Storace, a quel tempo portavoce di An, spiegò come fosse «gravissimo che la terza carica dello Stato si agitasse come un capo di partito», Forza Italia chiese un atto di responsabilità alla Pivetti, un avvocato milanese addirittura la denunciò per «tradimento del giuramento prestato». Tra i sostenitori delle dimissioni - scherzi del tempo - c’era anche Fini, che ora liquida come analfabetismo costituzionale i rilievi sulla sua incompatibilità, da leader di un nuovo partito, con quella carica. Fu proprio Fini, in una lunga nota, a spiegare perché un presidente della Camera part time è inaccettabile, soprattutto dopo un’esternazione molto polemica su un partito politico (la Pivetti quella volta criticò Forza Italia, così come l’altro giorno Fini ha dichiarato morto il Pdl attaccandone il leader). «Dovrebbe rendersi conto - ammonì Fini - che il giorno dopo aver detto cose così incredibili e gravi, torna ad essere presidente della Camera, determinando un clima che non è in sintonia con la serenità che tutti reputano necessaria ». Anche perché, ad aggravare l’anomalia, c’era il fatto che l’attacco della Pivetti era rivolto a quella stessa maggioranza che l’aveva eletta presidente della Camera. Curiosamente, l’identico paradosso che ora investe Gianfranco Fini, che pure - adesso - non ci trova nulla di anomalo. In quindici anni cambiano molte cose, in certi casi anche le idee. Poi, a Fini, l’indignazione per quello sfregio al ruolo super partes di presidente della Camera passò. Alla fine, dopo aver sollecitato le dimissioni, Fini adottò per quell’anomalia la battuta che fece Sgarbi: «È come se il Papa, per andare a donne, si spogliasse del suo ruolo spiegando che c'era andato come Wojtyla e non come pontefice ».
Un paradosso, come quello di un presidente della Camera che fa il capopartito contro la maggioranza che l’ha messo lì.Comunque,la Pivetti restò incollata lì per un altro annetto, fino allo scioglimento delle Camere. Lo stesso progetto, tanto per fare l’en plein delle analogie, che ha in mente Fini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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