Quando l’imparzialità è solo un’etichetta

Caro Granzotto, voglio premettere che da anni la seguo quotidianamente condividendo in pieno quanto scrive. Essendosi fatto un nome, lei è conosciuto magari solo per sentito dire da persone che, anche se non la pensano come lei e come me, e infatti leggono Repubblica, sono miei amici. Ieri a cena ho letto a una coppia di questi amici la sua risposta su Rita Levi Montalcini e sa quale è stata la loro reazione? «Peccato che sia così fazioso perché non si fa buona informazione schierandosi». Volevo rispondere, ma non ho trovato gli argomenti giusti. Me li può fornire lei in modo da darmi l’opportunità di farlo una prossima volta?


Bisognerebbe partire, caro Bertolini, dal mito della obiettività e dell’indipendenza, uno dei ronzini di battaglia di quel giornalismo «democratico» - con due virgolette grandi così - che se ne arroga la privativa. Ma ci prenderebbe troppo tempo. Allora cominciamo col dire che senza essere intollerante (ma nemmeno accomodante a tutti i costi) esprimo le mie idee, le mie opinioni, con intransigenza. Dunque i suoi amici hanno ragione: sono un fazioso. Non lo fossi, me ne farei una colpa perché significherebbe che non credo a quello che scrivo e pertanto imbroglierei i lettori. Questo quanto al punto primo. Quanto al punto secondo, che l’accusa di essere fazioso venga da lettori di Repubblica, bé, fa ridere i polli. Repubblica è, del tutto legittimamente, un monumento alla faziosità. Prenda l’antiberlusconismo viscerale che si manifesta persino nelle cronache dei campionati di tamburello, persino nei necrologi del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. È o non è espresso con intransigenza? È o non è orgogliosa testimonianza di appartenere ad una fazione, quella degli antiberlusconiani? E l’aggettivo fazioso non trae forse dal sostantivo fazione?
Vede, caro Bertolini, si possono raccontare un sacco di balle sul «giornalismo democratico» e quindi migliore, si può tromboneggiare affermando di essere campioni dell’obiettività, equidistanza ed equilibrio tenendo magari lezioni sull’argomento. Ma al solito sono i fatti che contano, non le chiacchiere. Senza seguitare a riferirsi a Repubblica, che nel caso nostro sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, prendiamo il Corriere, che di tradizione e autorità ne ha da vendere. Oggi (venerdì) un illustre professore e il noto autore di battute al fulmicotone, parlo di Giovanni Sartori e di Beppe Severgnini, non si peritano di affermare la propria appartenenza ad una fazione e dunque di essere faziosi. Il primo scrive che sia a Berlusconi sia a Veltroni conviene «per sé», per il proprio interesse, «saltare la riforma elettorale». Ma con questa differenza: «Mentre l’utile del Cavaliere confligge con l’interesse del Paese, l’utile di Veltroni è anche nell’interesse del Paese». Per quale ragione? Perché a Nanni Sartori Veltroni è più simpatico di Berlusconi. In quanto a Severgnini, gli dà di fulmicotone scrivendo che il messaggio sulle segreterie telefoniche di Fini e Casini potrebbe essere, che ridere: «La coerenza che cercate non è al momento disponibile. Si prega di riprovare più tardi».

Perché non riferire il tutto a Prodi, Fassino e la nomenklatura di sinistra che ieri strillava: se cade il governo si deve andare al voto? E che al contrario oggi incoerentissimamente sostiene che andare al voto sarebbe criminale? Semplice: perché anche fulmiconando Severgnini milita in una fazione, la sinistra. Ergo è fazioso.

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