C'era una volta la città italiana del jazz. Era Milano, adesso non c'è più. O quasi. Questi giorni tranquilli sono adatti per qualche riflessione. Quel titolo lusinghiero derivava dal nome di un film americano degli anni Quaranta, «New Orleans», per gli schermi italiani «La Città del jazz», appunto. Non era un grande film, ma gli interpreti principali erano Louis Armstrong e Billie Holiday, fidanzati nella vicenda, che naturalmente anche suonavano e cantavano, insieme con un gruppo di campioni del jazz tradizionale; e c'era pure l'orchestra di Woody Herman nel suo periodo migliore. Una manna, per gli appassionati della musica afro-americana in digiuno forzato dall'inizio della guerra.
La città italiana del jazz cominciò ad affermarsi nell'autunno del 1949, quando ospitò nell'allora Teatro Odeon il Concert Group di Louis Armstrong con solisti dello spessore di Jack Teagarden, Barney Bigard, Earl Hines, Arvell Shaw e Cozy Cole. Seguirono a ruota Duke Ellington, Benny Goodman, Ray Charles e negli anni Sessanta Miles Davis, Sonny Rollins, Ella Fitzgerald, John Coltrane, Charles Mingus, Eric Dolphy, Archie Shepp, Gerry Mulligan, Chet Baker, Sarah Vaughan... Una collezione di assi, ma basta citarli per constatare che, salvo due ancora viventi, tutti gli altri non sono più fra noi. Poi si aprirono i primi jazz club: il bellissimo ma effimero Jazz Power di piazza Duomo e il Capolinea, diventato il tempio milanese del jazz fin quasi alla fine del secolo, quando scomparve il suo fondatore Giorgio Vanni. Adesso, a quel livello, c'è per fortuna il Blue Note.
Si potrebbe dire, semplificando, che la città italiana del jazz ha perduto il titolo perché mancano quei maestri che hanno fatto del jazz la grande musica del Novecento. C'è molto di vero. Ma la musica afro-americana e i fenomeni derivati e collaterali esistono ancora. Però sono molto diversi da allora, e coloro che organizzano concerti e producono dischi e affini (Milano sotto quest'ultimo aspetto è rimasta una città importante) devono prenderne atto. I Grandi Musicisti Autodidatti - molti di quelli menzionati lo erano - non fanno più testo. A loro si chiedono oggi studi giovanili ortodossi e severi, e la precisa consapevolezza della storia della loro musica e di altre civiltà musicali, in primis della grande musica europea.
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