«Quando Pertini mi tolse il saluto»

Vincenzo Pricolo

da Milano

Ottantaquattro anni compiuti, una memoria che spazia dai nomi dei capi di stato maggiore in carica durante la seconda guerra mondiale al numero dei voti che lo hanno portato al Senato nel 2001, una ventina di campagne elettorali alle spalle fra amministrative e politiche prima per il Msi e poi per An, nove legislature alla Camera e due a Palazzo Madama, Franco Servello non è candidato. Annunciandolo lui stesso in aula nell’ultima seduta, aveva ricevuto attestazioni di stima da gran parte dei colleghi e dai dipendenti di Palazzo Madama.
Nato nel 1921 a Cambridge nel Massachusetts da genitori calabresi, Servello arrivò in Italia all’età di tre anni perché la madre non sopportava la condizione di emigrata. Il suo impegno politico cominciò il 14 marzo del 1947, quando la cosiddetta Volante rossa uccise a Milano suo zio Franco de Agazio, direttore del settimanale di destra Meridiano d’Italia. Prima si avvicinò al Movimento nazionale per la democrazia sociale fondato dall’ex qualunquista Emilio Patrissi, poi al Msi, partito al quale si iscrisse nel 1948 e del quale è stato «federale» milanese durante gli anni Settanta e poi per 13 anni vicesegretario vicario con Giorgio Almirante.
Senatore, dopo quasi mezzo secolo in Parlamento lascia. E ora?
«Sono coordinatore dell’Assemblea nazionale; e poi c’è la campagna elettorale».
Che conduce come se fosse candidato...
«Beh, non esageriamo, non è proprio la stessa cosa - sorride -. Per me è un’esperienza nuova...».
Che cosa ha imparato in tante campagne elettorali?
«Che è fondamentale il rapporto diretto con la gente, soprattutto in periferia. Nel 1958 nella circoscrizione Milano-Pavia fui il più votato del mio partito, che schierava dirigenti nazionali, perché fui l’unico a battere il Pavese. E a Gianfranco Fini, quando si candidò la prima volta nel Lazio, dissi “gira i paesi con camioncino, altoparlante e manifesti col tuo nome; e vai a Roma solo gli ultimi giorni”. Naturalmente, anche grazie al supporto di Almirante, fu eletto».
È arrivato alla Camera nel 1958. A parte Alcide De Gasperi, ha conosciuto tutti i grandi politici della Prima Repubblica. Da quale cominciamo?
«Da Giorgio Almirante. Quando interveniva gli altri non volevano farsi vedere in aula ma siccome ascoltarlo era un piacere anche per loro arrivano alla chetichella con la scusa di prendere un documento o di dire qualcosa a un collega. E l’emiciclo si riempiva».
Palmiro Togliatti.
«Sensibilità politica eccezionale. Ma per me resta un enigma».
Pietro Nenni.
«Era un socialista deamicisiano, superato. Da vicepresidente del consiglio ammise “sono stato nella stanza dei bottoni ma non ho trovato i bottoni”. Era una persona di grandissima umanità e lo dimostrò con la famiglia Mussolini».
Sandro Pertini.
«Quando era presidente della Camera gli urlai “arteriosclerotico” in un attimo di silenzio inaspettato durante un tumulto. Non mi rivolse la parola per anni».
Aldo Moro.
«Noi del Msi dicevamo “si piega ma non si spiega” e “l’unica cosa chiara che ha in testa è il ciuffo”. Scherzi a parte, aveva in mente un progetto ma non appariva in grado di prevedere e gestire le tappe intermedie».
Bettino Craxi.
«Poteva essere il protagonista di quel grande cambiamento della sinistra che non è ancora avvenuto. Firmò la sua morte politica quando permise con grande ingenuità al Pds di entrare nell’Internazionale socialista».
La battuta più simpatica di un avversario?
«È di Giancarlo Paietta. Una sera entrò in aula mentre facevamo ostruzionismo, vide che eravamo presenti solo noi del Msi e andandosene disse “l’ultimo che esce spenga la luce”.
La sconfitta che ancora brucia?
«Nel 1994 sbagliai a scegliere il collegio e non fui eletto. E pensare che ero stato fra gli artefici del patto con Berlusconi...».
E la vittoria politica più bella?
«L’uscita dagli anni di piombo. Ero il federale di Milano e apparivo moderato; quel termine non era un titolo di nobiltà. Ma i risultati elettorali ci premiarono».
Il momento più drammatico della sua vita politica?
«Il congresso di Fiuggi. La notte fra la “morte” del Msi e la nascita di An».
E l’attentato che subì nel 1972?
«Non fu un momento drammatico, per fortuna tutto si risolse bene. Il neofita di Lotta continua che doveva mostrare ai compagni il suo coraggio sparandomi sul pianerottolo di casa fece partire un colpo per sbaglio e fu preso. Gli anni successivi furono difficili, giravo armato. Una sera ebbi l’impressione che la persona che camminava verso di me avesse messo la mano in tasca non appena mi aveva visto. Fui tentato di sparare, per fortuna non lo feci e mi resi conto che le pistole non facevano per me».


Quasi mezzo secolo in Parlamento ma mai al governo. Le sarebbe piaciuto?
«Sì. Nel 1994 a Palazzo Chigi avevano preparato un ufficio per me. Ma il decreto di nomina a sottosegretario non arrivò mai. Forse è meglio così».

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