Luca Cordero di Montezemolo ha presentato ieri il decalogo di Confindustria per il futuro governo. Sono proposte - ha detto - prima da cittadino che da leader degli industriali. In realtà ha ragione Sergio Romano quando spiega sul Corriere della Sera che chi è eletto per rappresentare le imprese, non dovrebbe vergognarsi del suo mestiere e uscire dal seminato. Il leader degli imprenditori si è concentrato, comunque, su consigli di buon senso: dall’energia (bravo sul nucleare), all’ambiente, alla ricerca, alle semplificazioni burocratiche, al Sud, alle infrastrutture (che cosa servono, però, le autostrade al Sud se non si fa il ponte di Messina? Una parolina poi su Malpensa forse andava detta) alla scuola e università. Fino ai temi più confindustriali, contratti e lavoro, su cui poteva sprecare qualche idea in più (anche se è perfetta la posizione sulla detassazione di straordinari e premi). In particolare sulla questione del salario minimo generalizzato per i lavoratori a contratto flessibile proposto dal Pd, Montezemolo poteva dire quello che ha già ribadito il suo antico collaboratore Massimo Calearo (pur capolista del Pd): non sono d’accordo.
Sulle tasse ha avanzato proposte pro business da valutare nel merito (altri interventi sul cuneo fiscale) ma anche un orizzonte: fino al 2010 la pressione fiscale deve diminuire dal 43 e passa di oggi al 42 per cento. Questa indicazione ribadisce l’elemento di cecità politica della recente gestione di Confindustria: l’idea che la pressione fiscale debba essere tagliata radicalmente solo per le imprese. Questa è stata la base dell’insensata intesa tra Romano Prodi, Guglielmo Epifani e lo stesso Montezemolo (che a un certo punto disse: meno tasse uguale meno sviluppo): l’idea che fosse possibile spremere i ceti medi per finanziare un’intesa tra grandi imprese e sindacati. L’Italia non accetta questa impostazione. La caduta di Prodi lo dimostra, il travestitismo sul fisco di Walter Veltroni lo rivela. E, infine, lo evidenzia la crisi del montezemolismo in Confindustria. Non è un caso che il suo pupillo Matteo Colaninno debba scappare sotto le ali di Veltroni perché, dopo averci provato, ha constatato che gli imprenditori-imprenditori non lo vogliono come vice nella presidenza Marcegaglia. Ancora più istruttiva è la vicenda di Calearo: uno che agli amici diceva «Sono monarchico e fascista», che nelle assemblee degli industriali affermava: «Sia ben chiaro io difendo l’autonomia di Confindustria, ma ho sempre votato a destra e non voterò mai a sinistra».
Calearo adesso fa il difensore dei «piccoli» ma la storia della sua resistibile ascesa è quella di uomo Fiat (per cui produce antenne) e del potere bancario vicentino, impegnatosi a stroncare un vero rappresentante dei «piccoli» come il leader dei «veneti» Nicola Tognana, pugnalato alle spalle per aprire la strada a Montezemolo. Ma dopo la gloria, sono venuti i dolori del fallimento della politica montezemoliana: la famosa sollevazione vicentina contro i vertici, le tasse di Prodi, i contratti criticati da Sergio Marchionne e così via. E con il fallimento della linea, il fallimento personale: niente presidenza della Camera di Commercio, la perdita del controllo dell’associazione vicentina (che ha fatto scattare l’amore per Veltroni) e quindi l’impossibilità dell’agognata vicepresidenza in Confindustria.
E così, via nel Circo Barnum veltroniano. Oggi l’atmosfera del Pd è da casting di Beautiful e di Dynasty più che da cupo tatticismo bolscevico.
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