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Quei lamenti di povertà sospesi solo per il «ponte»

Chi erano, dove andavano? Erano davvero gli stessi italiani declinanti e crepuscolari, in feroce colluttazione con bollette e scadenze di fine mese, quelli che l'altro giorno hanno inscenato il girone dantesco del grande rientro?
L'apocalisse autostradale dell'ultimo ponte, con sbalorditivi record di tempo e di spazio nell'aspra disciplina della coda (sei ore, cento chilometri), certamente ripropone in tutta la sua disarmante gravità la piaga viabilistica dell'Italia moderna. Ma fin qui saremmo purtroppo nell'ordinario e nel risaputo, compresi i puntuali appelli a viaggiare con adeguate scorte d'acqua, come nei raid sul Tibet o nel Sahara. A rendere lo spettacolo decisamente nuovo e singolare, questa volta, c'è però la stridente concomitanza del fenomeno col clima depresso che grava sul Paese. Fino a metà pomeriggio del primo giugno era pianto e stridor di denti, con la sensazione netta di vivere la fosca stagione della crisi. Poi, in tardo pomeriggio, l'ineffabile svolta del genio italiano: allegria, bando alla mestizia, di corsa verso casa per caricare bagagli e famiglia, quindi tutti in fila per raggiungere le ubertose località di villeggiatura. Da mercoledì pomeriggio a domenica sera, ponte strategico come usava una volta, quando non eravamo in crisi e la fine del mese era solo una data qualsiasi sul calendario. Due giugno, Festa della Repubblica: che festa, la Repubblica.
Come spiegarci questi segnali in totale contraddizione, cioè il lamento continuo sulle difficoltà del vivere e le gaudenti fughe dalle città? Può pure darsi che i milioni di italiani fuoriporta fossero tutti in fila col cappello in mano, davanti alla porta di Siniscalco. Ma dalle prime statistiche sembra emergere un quadro decisamente opposto: in Romagna come in Liguria, sulle Dolomiti come nelle città d'arte, in tutta Italia isole comprese gli operatori segnalano l'«esaurito». E se lo riconoscono loro, che nell'arte nazionale del piagnisteo sono maestri, significa davvero «esaurito». Com'è possibile, con quel che costano benzina, autostrada, pizzeria, acquafan, ombrellone, mountain-bike, gelato, discoteca, albergo e persino parcheggio? Diamo pure per scontato che Berlusconi esageri in ottimismo, quando definisce l'Italia una nazione benestante: ma come si sposa l'incubo della crisi e della nuova povertà con le immagini terrificanti delle ultime code?
I sociologi più tetri spiegano come sia tutto perfettamente logico e lineare: gli italiani si concedono il quarto d'ora di evasione. Spendono gli ultimi spiccioli. Scappano dai pensieri. Ma questa analisi del fenomeno suona abbastanza offensiva nei confronti dei connazionali effettivamente in crisi. È la realtà: purtroppo in Italia esiste ancora una marginalità di individui che davvero sono macerati dai pensieri, senza avere però il portafoglio per fuggirne. Questa gente, in maggioranza anziani, meriterebbe più rispetto. Soprattutto da chi strepita sulla crisi solo perché è costretto a indebitarsi per volare a Formentera. È sgradevole rilevarlo, ma la netta sensazione è che ancora una volta l'Italia sia vittima di un suo antico limite, quasi un'arte popolare: il lamento di piazza.
Certo il momento è innegabilmente difficile. Troppi segnali lo dimostrano. Ma è nei momenti difficili, storicamente, che l'Italia ha sempre dato il meglio di sé. Conviene ricordarlo, ogni tanto: sessant'anni fa, questa strana nazione era un cumulo di detriti bellici, svilita e sbertucciata in giro per il mondo. Anche allora, durante la ricostruzione, i nostri padri ci caricavano sulla Bianchina o sulla Seicento per passare una domenica al mare. Se potevano. Se non potevano, ci portavano in cortile a tirare quattro calci. Non erano stagioni più facili di questa, ma i nostri padri non si lamentavano. Al lunedì mattina, si ripresentavano puntuali nelle fabbriche e negli uffici, al proprio posto, pronti a svolgere il proprio compito: per assicurare un domani alla propria famiglia, per restituire una dignità al proprio Paese.
Che cosa è cambiato, da allora? Riconosciamolo: noi abbiamo meno voglia di lavorare dei nostri padri. Semplicemente. Piangiamo miseria senza sapere bene di che stiamo parlando. Soffriamo tremendamente la crisi stesi sulla sdraio di Milano Marittima o nel centro benessere di Brunico. Siamo tutti convinti che in questa fase delicata ci si debba rimboccare le maniche, ma è sottinteso che debbano rimboccarsele gli altri. E abbiamo un modo tutto nostro per reagire virilmente alle difficoltà: ore diciassette dell'ultimo giorno lavorativo, sospendiamo le macerazioni.

Chiuso per ferie, anche il lamento. Se ne riparla di lunedì. Forse sarà anche vero che l'Italia si stia affacciando sull'orlo di chissà quale abisso, ma il colpo d'occhio dall'ultimo ponte induce ad un'altra conclusione: no, la ricreazione non è finita.

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