Quei «maiali» che osarono sfidare la Royal Navy

Luigi Romersa ricostruisce l’epopea dei nostri mezzi sottomarini d’assalto nel secondo conflitto mondiale

«Artisti della solitudine e del coraggio», questo è il titolo del primo capitolo del bel libro che Luigi Romersa ha dedicato alle imprese dei mezzi d’assalto (All’ultimo quarto di luna, Mursia, pagg.160, euro 16,30). L’autore ha fotografato la realtà dei «maiali», barchini esplosivi e minisommergibili. Dei «siluri umani» che diedero conto di sé, tra il ’40 e il ’43, a Creta o a Malta, a Gibilterra o ad Alessandria, s’è molto parlato. Su quelle imprese furono girati anche un paio di film di successo. Ma questo libro di Romersa è qualcosa di più e di diverso dai saggi e dalle trasposizioni cinematografiche. È una cronaca storica in forma di reportage, alla Cornelius Ryan, per intenderci, o alla Collins-La Pierre: estremo rigore (Romersa ha potuto accedere agli archivi riservati del ministero della Marina e raccogliere le testimonianze dei protagonisti) e ritmo narrativo giornalistico.
La storia la scrivono i vincitori. Ma nella storia scritta da chi prevalse, i mezzi d’assalto italiani e gli uomini che li portarono fin sotto le chiglie delle navi inglesi hanno un trattamento privilegiato: l’audacia, l’abnegazione e il talento di Luigi Durand de la Penne, Gino Birindelli, Decio Catalano, Amedeo Vesco, Leonida Zozzoli e dei «secondi», tutti marinai palombari, per non parlar poi dell’ingegnosità dei progettisti strapparono l’ammirazione dei nostri avversari.
L’idea dei mezzi d’assalto risale alla prima delle due guerre mondiali. Fu infatti con un ordigno chiamato «mignatta» che Giovanni Rossetti e Raffaele Paolucci si introdussero in immersione nel porto di Pola affondando la corazzata «Viribus Unitis». Ed è da lì che prende le mosse Luigi Romersa per raccontare la storia degli artisti della solitudine e del coraggio, perché da lì presero a loro volta le mosse due giovani ingegneri, Teseo Tesei e Elios Toschi, che intendevano perfezionare la «mignatta» per farne un’arma micidiale che colpiva di sorpresa. Quando il cielo della pace cominciò ad annuvolarsi, lo Stato Maggiore fu alluvionato da progetti di ordigni mirati a colpire la flotta nemica. Ma a farsi strada fu la «torpedine semovente» di Tesei e Toschi (quella che poi sarà conosciuta come «maiale». Nome nato per caso: nel corso d’una esercitazione, a Tesei capitò di dover assicurare la torpedine alla rete di sbarramento. Così si rivolse al suo secondo dicendogli: «Lega il maiale» come avrebbe potuto dire «lega il somaro»). Il primo fu costruito a La Spezia, nel ’35. Ne seguirono poi altri quattro ed è con quelli che vennero fatti i primi collaudi e addestramenti. Ma nel settembre del ’39 la «prima covata», otto volontari guidati da Durand de la Penne, cominciò a fare sul serio e allorché l’Italia scese in guerra i «maiali» e i loro equipaggi erano pronti a sfidare il nemico.
La parte più appassionante di All’ultimo quarto di luna sono i resoconti di quanto accadeva sott’acqua, con i due membri dell’equipaggio dei «maiali» soli sul fondo, al buio (guidati da una piccola bussola con i riferimenti fosforescenti), col «maiale» che poteva fare - e faceva - i capricci, con difficoltà non previste, con la lotta contro il freddo, le correnti, col pericolo costituito dai pattugliamenti in superficie e dalle sciabolate dei riflettori, con l’immane fatica per trascinare a mano il «maiale», aprirsi un varco tra le maglie degli sbarramenti e finalmente giungere sotto l’obiettivo. E anche allora non era finita perché bisognava staccare e armare la testata esplosiva, fissarla alla chiglia, regolare le spolette - soggette anch’esse a capricci mortali - e allontanarsi prima dell’esplosione.

Tutto ciò viene narrato da Luigi Romersa, che fu, durante il secondo conflitto mondiale, corrispondente di guerra, con linguaggio piano eppure avvincente, senza scivolare mai nella retorica, ma semplicemente riferendo comportamenti e emozioni dei protagonisti o quanto meno dei sopravvissuti che ebbe la ventura di intervistare. Ne escono storie di gesta che per la loro singolarità parrebbero frutto di fantasia. Invece no: «Storie vere - conclude Romersa - tanto vere da sembrare favole».

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