Quei maledetti indimenticabili anni Settanta

La provocatoria tesi di un gruppo di studiosi: il quindicennio compreso tra il 1964 e il 1980, proprio a causa dei conflitti politici e sociali, fu caratterizzato da una grande capacità inventiva. Dal cinema alla narrativa,dalla moda al teatro

Quentin Tarantino? È figlio di Umberto Lenzi e Ferdinando Di Leo, misconosciuti registi di serie B. Il Codice da Vinci? Dan Brown non l’avrebbe mai scritto se non avesse letto Il nome della rosa di Umberto Eco. Gli hackers e i maghi della rete? Semplici allievi di quelle migliaia di radio libere che si ascoltavano in Italia, venti, trent’anni fa. Per non parlare dei pubblicitari di tutto il mondo, che ancora ripetono le lezioni imparate da Oliviero Toscani e Armando Testa.
Non basta? E allora pensiamo a Carmelo Bene, Leo De Bernardinis, Giorgio Strehler, che inventarono quel teatro che, ancora oggi, stanchi epigoni cercano di imitare; o a Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa che, con Kounellis, De Dominicis, Pistoletto, dialogano con Trisha Brown e Joseph Beuys.
Probabilmente non ce ne eravamo accorti, ma c’è stato più di un quindicennio, tra il 1964 e il 1980, proprio in quel periodo che ricordiamo come gli anni di piombo, terrorismo e centri sociali, sindacalismo esasperato e inquietudine giovanile, pistolettate in piazza ed esasperazioni politiche, insomma, giusto quegli anni che vorremmo dimenticare, quella parentesi grigia che sta tra il boom economico del dopoguerra e i magnifici anni Ottanta, sì, proprio quel quindicennio oscuro, in realtà, è stato l’ultimo vero rinascimento della cultura italiana; l’ultimo momento in cui ciò che si scriveva, si girava, si disegnava, si dipingeva, si componeva, si inventava, si creava a Milano come a Roma, a Napoli o a Firenze o a Bologna, veniva divorato e copiato a New York e a Hollywood, a Londra e a Parigi; l’ultimo momento in cui l’Italia stava ancora al centro dell’Impero culturale mondiale, prima di sprofondare in quella lontana periferia in cui vivacchia tristemente tuttora.
E se ciò accadeva, era proprio a causa dei motivi per cui le cronache ricordano quegli anni: per gli scontri politici, le contraddizioni e il disordine sociale, le lotte che si combattevano, giorno dopo giorno, in piazza e sui giornali. Anzi, è proprio quel caos e quel clima di battaglia a far nascere l’ultimo rinascimento culturale italiano, a produrre quei fermenti e quelle inquietudini, quei bisogni di libertà e quella insofferenza alle regole che sono indispensabili per produrre qualcosa di nuovo e di vivo.
«Sembra proprio della tradizione italiana, dal Rinascimento in poi, far nascere su questo terreno del conflitto interno, dello scontro sociale violento tra fazioni, il dinamismo creativo della sua cultura \. E rimane anche il fatto che a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, con la scomparsa del conflitto politico, la cultura italiana, come era già accaduto in altri periodi storici, torna ad avere un ruolo periferico e marginale nel contesto mondiale»: così nel saggio dal titolo Possibilmente freddi. Come l’Italia esporta cultura (1964-1980) (DeriveApprodi, pagg. 92, euro 11), Douglas Mortimer, pseudonimo in perfetto stile da film di Sergio Leone ispirato al vecchio colonnello di Per un pugno di dollari dietro cui si nasconde un gruppo di studiosi italiani, spiega la ricchezza culturale di quegli anni secondo una vecchia regola storica, la stessa con cui si potrebbe capire meglio, per esempio, il futurismo e l’esplosione artistica e letteraria dei primi trent’anni del Novecento con le rivoluzioni e le guerre civili che hanno insanguinato l’Europa, oppure la ricchezza e l’originalità della cultura americana dagli anni Settanta in poi con il Vietnam e i conflitti razziali esplosi nelle città americane.
Non solo, ma da questo fermento culturale nascono anche conseguenze sociali e politiche «dentro il processo di modernizzazione delle società occidentali, la differenza italiana sta proprio qui, in questo connubio esplosivo di cultura politica di massa che produce senso comune e agire consumistico, che indirizza e frantuma questa radicalità sociale sino a portarla a livello individuale. Un individio che diventa tale perché finalmente fuoriesce dal privato e dall’universalismo neutro dei valori della democrazia di massa in cui era stato rinchiuso negli anni del dopoguerra».
E quindi, Rinascimento culturale ma anche genesi di ogni opposizione futura, di qualsiasi attacco al sistema e al potere: perché in quegli anni «la cultura italiana fornisce al mondo le coordinate simboliche, tecniche e retoriche per la rappresentazione universale dell’agire antistituzionale, della psicopatia e della devianza, disegnando i contorni di quelle che da quel momento in poi saranno le figure antisociali per eccellenza: l’estremista politico, il pirata dell’etere, il terrorista, lo stragista, il deviante (anticipando Arancia meccanica), il giustiziere, il serial killer e, non ultimo, l’ultras».


Non ce n’eravamo accorti, ma negli anni di piombo, in quei maledetti anni Settanta, in Italia abbiamo inventato e anticipato tutto il fervore e il terrore, la ricchezza e la miseria intellettuale con cui, ancora oggi, facciamo i conti.

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