Anche i libri apparentemente minori di Ottieri sono straordinari. O forse: non ha mai scritto opere minori, Ottieri. Perché ha, sempre, lasciato libero un talento, un istinto a drammatizzare narrativamente non solo i dettagli della vita quotidiana, o i momenti della storia, o le prospettive che la stessa storia ha aperto e richiuso. Ha fatto di più: ha reso materia narrativa anche le (cosiddette) sovrastrutture culturali, mentali, psichiche. Le ideologie e i loro precipitati più infimi: pregiudizi, schemi di pensiero mai del tutto riflessi e, dunque, inconsapevoli, o subliminali, sublimati. O rimossi, nascosti. Ripetuto in maniera un poco ridondante: Ottiero Ottieri è stato il narratore non delle coscienze novecentesche e neppure dei suoi inconsci, bensì delle false coscienze.
Da questo punto di vista, è un scrittore inarrivabile, forse lultimo grande autore del secolo appena andato. Non è un caso, credo, che i punti critici della sua storia personale e letteraria siano quelli nei quali il conflitto fra consapevolezza e incoscienza tocca i vertici. E allora abbiamo figure che afferrano il mondo, e nello stesso tempo vorrebbero afferrarlo con ben altra compiutezza e totalità. Intelligenze alte o altissime, dunque. Che non riescono, e quasi se ne rendono conto (ma proprio il «quasi» è decisivo), ad andare oltre le quote di autocomprensione che unepoca può concedere a se stessa. Da qui il senso di ansia, ira o frustrazione o disforia nichilista o depressione che attraversa i libri di Ottieri.
Non bisognerà, a questo proposito, farsi ingannare dal genere. Sia che faccia un personalissimo uso della forma-saggio, dellautobiografia, della trama romanzesca, sia che incroci gli istituti, Ottieri ripete sempre la stessa tragedia fondamentale: bisognerebbe travalicare la propria storia, capire più e meglio. E non si può. Nessun autore allora, è stato più immerso nellideologico e, insieme, nessuno è stato tanto teso a disfarsene con odio. Trovando sempre, dinanzi a sé, il nulla. Del quale nulla sembrano circondati i personaggi di questo I divini mondani, novella-pièce scritta in pieno maggio Sessantotto (Guanda, pagg. 90, euro 11,50). In cui agiscono dei beneficiati in straeccesso di benessere. E vagolano tra feste, puntate in elicottero privato, devastanti (per le bestie) battute di caccia, nuove feste. Milano, Roma, Madrid, le Alpi, ancora Milano. Belle donne e bei vizi. Denaro e mezzi a carrettate.
Attenzione, tuttavia: Ottieri si guarda dal fare della satira sociale attendibile. Piuttosto, si lascia andare a una sorta di livore agonistico descrittivo che si scarica sulla pagina nel tratteggiare caricaturalmente quell«alto sociale» che poi diventa il suo bersaglio globale: fighetti, bulli & pupe altolocatissimi e belli e impestati doro, argento e disponibilità. Ammucchiate di sanissimi cinico-deficienti, insomma. Tratteggia senza pietà, Ottieri. Accatastando, sovrapponendo dettagli à la Bosch. Da visionario. E il risentimento, forse, tocca il genere letterario che in quegli anni andava di moda e, in qualche maniera e per altre strade, ha rischiato di omologarsi a quello stesso «alto-sociale» tanto detestato. Perché ne I divini mondani è perfino lecito rintracciare echi di nouveau roman, a cui Ottieri fa, a volte, il verso.
Fa effetto, oggi, sentire che si grida alla grande opera quando si scopre uno scrittore comunque «contro». Ottieri era contro tutti. Anche se stesso. Un maestro.
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