Per spiegare che cosa sia stato il 1977 Lucia Annunziata usa alcune immagini plastiche che hanno una loro efficacia: «Lultima foto di famiglia della sinistra tutta», «Lanno in cui inizia a morire lItalia nata dalla Resistenza», «Lo spartiacque dopo il quale lItalia non sarebbe più stata la stessa». Lo fa in un pamphlet, 1977 appunto (Einaudi, pagg. 165, euro 14,50), malinconico e rabbioso, comunque ben scritto, a cui qualcuno ha rimproverato la «mistica del sanpietrino», qualcun altro la «geometricità» dello stesso (per lautrice sarebbe un cubo a quattro facce...). A trentanni da quella data, meravigliarsi della violenza compiaciuta da un lato, dellignoranza «al cubo» dallaltro, è un puntiglio un po surreale. Lestrema sinistra, allora, era proprio così, distruttiva nelle pulsioni, superficiale nel linguaggio.
Più interessante è chiedersi se quelle immagini di cui sopra rispondano alla domanda su cosa quellanno abbia rappresentato. È un dato di fatto che ciò che allora andò in frantumi fu la politica, gli schieramenti, i militanti, i partiti. Ma cè in questo fallimento un elemento paradossale che lAnnunziata non mette a fuoco e che pure, ieri come oggi, è alla base dellimpasse in cui versa la sinistra para, post o ex comunista: il rifiuto di vedersi come una forza di potere, il crogiolarsi nellidea di essere opposizione, la sottolineatura di una minoranza intellettuale, frutto di una visione alternativa (i «figli di un Dio minore» di cui parlerà Massimo DAlema quando diverrà presidente del Consiglio), che era però di fatto maggioranza culturale in grado di decidere mode, plasmare coscienze, pianificare carriere. Tutto ciò si traduceva da un lato in unassenza di discriminazione da parte del sistema vigente, curiosa per chi se ne riteneva lavversario deputato, nel rifiuto di ogni responsabilità dallaltro, che significava godere dei diritti di una società liberaldemocratica senza però sottostare ad alcun dovere.
Questo comportamento schizofrenico faceva parte di un sentimento comune. I professori di liceo potevano contestare la loro scuola e però esserne i presidi, i giornalisti dalla prosa rivoluzionaria potevano contare nella successiva assunzione presso la stampa «reazionaria», i mazzieri delle manifestazioni contro il bieco capitalismo li ritrovavi manager di una multinazionale o di unazienda, spesso quella paterna. Gli esempi potrebbero continuare, ma eguale rimarrebbe questa sensazione di «diversità», questo retrogusto fatto dellidea di aver comunque «resistito», di essere stati, comunque, allopposizione... A metà degli anni 90, al tempo del primo governo Berlusconi, Nanni Moretti potrà tranquillamente dichiarare a un quotidiano francese che la sinistra in Italia non aveva mai governato... Ciò che colpisce di questa affermazione non è tanto che fosse falsa, quanto che chi la pronunciava ci credesse. Ancora oggi chi proviene da quella sinistra oggetto del libro della Annunziata, continua a ritenersi uno e bino, governa ma non lo vuole ammettere, esercita il potere ma non se ne vuole assumere la responsabilità, è a Palazzo Chigi ma pensa di stare in piazza...
Nel 77 questa logica binaria «di lotta e di governo» andò per la prima volta in corto circuito e ciò che successivamente è stato rimesso con fatica in piedi non è altro che la sua caricatura. LItalia aveva allora un suo languore orientale, una capacità di sfasciarsi senza però crollare di colpo... Era un Paese che aveva creato il connubio più straordinario, quello di un un popolo con tutti i miti cari a una società dei consumi e capitalista nei fatti e con una dittatura culturale orientata verso il sistema opposto, creando così una strana figura che era per il collettivo, ma sfruttava il privato, disdegnava gli sprechi ma ne faceva granduso, leggeva Lenin e Linus con assoluta interscambiabilità.
Così, in una decadenza senza tregua ma quasi inavvertibile, lunica cosa stabile era il provvisorio: la rivoluzione non arrivava ma la reazione non esisteva, era una sorta di «terra di mezzo» in cui ogni esperimento era lecito, ogni demagogia possibile, ogni sogno auspicabile. Il fallimento marxista marciava di pari passo, ideologicamente, con lo sfascio democratico, ma paradossalmente i due si davano la mano, si sostenevano, non potevano fare a meno luno dellaltro.
Il primo cortocircuito fu il terrorismo, che infatti affondò le radici proprio qui: il militante era ormai un burocrate, lintellettuale operaista godeva i privilegi della critica distruttiva fatta sui giornali a grande tiratura, il politico suo omologo era stretto in tanti e tali giochi di potere che lo portavano ad assumere, per forza di cose, la stessa forma mentis di chi avrebbe dovuto combattere. Il dramma del terrorista è che aveva già vinto, lo Stato non esisteva più, ne esistevano soltanto i residui passivi. Ma allideologia vincente non era corrisposto un cambiamento politico totale; in trentanni di fornicazione con il potere e di lenta corrosione dellavversario, si era anchessa adattata. Alla moda non faceva seguito la prassi coerente, ma laccettazione di un modello ibrido che però accontentava vincitori e vinti accomunandoli nel medesimo disastro. Tutte le parole dordine della sinistra bene o male avevano raggiunto lobiettivo, però arrivate a quel punto si erano fermate.
Il terrorista si ritrovò così a essere il professionista che aveva preso sul serio la lezione sullo Stato da abbattere e non da cambiare, linnamorato del cambiamento sanguinoso di una società che nessuno in realtà voleva cambiare, perché andava benissimo così, demagogica e violenta, a volte repressiva ma sempre sbracata, dove i primi a non credere nelle istituzioni erano i garanti delle stesse. La sua immagine faceva sì parte di un «album di famiglia», e questo gli garantiva un calore diffuso se non di consenso, certo di comprensione: e tuttavia questo album andava solo agitato... Se diveniva realtà la logica binaria «di lotta e di governo» andava a farsi benedire.
Il successivo cortocircuito venne dalla contestazione giovanile, gli «indiani metropolitani, la Generazione dellAnno IX», come venne definita datandone la nascita al 1968. Nella rivolta contro baroni universitari e leader sindacali, non cera soltanto la violenza di chi si voleva mettere fuori dalle regole, cera, soprattutto, il disprezzo verso quelle figure che in anni lontani avevano promesso «radiosi maggi di lotta» e adesso blateravano di «difficili autunni di sacrifici». Nel momento in cui la pesante pedata del Cavallo pazzo di turno raggiungeva le tenere carni posteriori del sociologo di grido, ovvero provocava leccessiva sudorazione del corpulento leader operaista, era allora che tramontava un mito, e non ne rimaneva che la caricatura da atrocemente sbeffeggiare. La contestazione del sindacato significò il no alla «nuova polizia»; al «blocco dordine» tra grande industria del Nord e forze operaie; alla pretesa di coprire ogni cosa con enfatici appelli alla solidarietà; al tentativo di bandire un nuovo-antico esorcismo tale da far passare per «fascista» tutto e tutti.
Questo spiega perché comunisti e affini, fallito il tentativo di farsi garanti e moderatori della contestazione, decisero di esserne i becchini. Fu una tipica situazione di rivolta di figli contro padri, meglio, contro padri putativi, che nella loro corsa al potere e al suo mantenimento non volevano ostacoli e impedimenti. Quei ragazzi non volevano più sentirsi fare la predica da una classe dirigente che non aveva il pudore delle proprie vergogne, né, tantomeno, erano disposti ad accettarla da quella forza di «opposizione» che dimostrava, una volta di più, la tendenza a essere totalitaria, a organizzare e massificare ogni cosa dietro il «fantasma» del partigiano o quello del metalmeccanico in tuta.
Chiedersi perché quella contestazione fallì è una domanda ingenua. Ci sarebbe caso mai da domandarsi come potè attecchire, per un certo tempo, una risposta generazionale priva di un effettivo retroterra culturale, più portata a banalizzare che a realmente costruire. Alla distanza vennero fuori le crepe di una alternativa generosa ma sterile, nel momento in cui, di fatto, la sua capacità di uscire da una formula e un progetto dimostratisi fallimentari, risultava legata non a una profonda revisione ideologica, ma a una sorta di reazione da amante tradito, ma pur sempre innamorato; di odio-amore in traballante convivenza.
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