Economia

Ma a quel manager controcorrente manca ancora una buona macchina

Ma a quel manager controcorrente manca ancora una buona macchina

Con un comunicato di tre righe diramato ieri pomeriggio, la Fiat ha fatto sapere che da gennaio la sua storia più che centenaria cambierà, la società si dividerà in due: da una parte l'auto, dall'altra tutto il resto. Decisione da tempo annunciata, che aspettava soltanto il sigillo dell'ufficialità. Eccolo. Sempre ieri le agenzie hanno reso noti i dati sull'andamento del mercato dell'auto in Europa occidentale. Nei primi otto mesi del 2010 la quota del gruppo è stata dell'8 per cento. Era del 9% nel corrispondente periodo 2009. In un anno il Lingotto ha ceduto un punto alla concorrenza.
Il problema è qui. Grandi rivoluzioni nelle strategie e negli assetti societari, ma andamento così così in quello che è tuttora il mestiere principale della casa torinese, vale a dire la produzione di automobili. E questa è un po' la sintesi della gestione di Sergio Marchionne, il manager italo-franco-canadese con il maglione, dal primo giugno 2004 amministratore delegato della società controllata dalla famiglia Agnelli. Comunque è una gestione che va promossa a pieni voti e caso mai anche con lode. Il Lingotto sei anni fa era sull'orlo del fallimento, oberato dai debiti, traumatizzato da un tentativo (fallito) di matrimonio con la General Motors: privo di leadership, dopo la scomparsa di Giovanni e Umberto Agnelli, procedeva alla cieca. Il suo arrivo ha trasformato tutto a Torino: con un piglio durissimo, grande tenacia, una capacità di lavoro ineguagliabile e una assoluta chiarezza di idee, è riuscito a portare la Fiat fuori da una crisi che molti avevano giudicato irreversibile. Le sue scelte, coraggiose al limite della temerarietà, si sono dimostrate vincenti. Poco più di un anno fa, con l'economia mondiale in crollo, ha sostenuto che il solo modo di sopravvivere per un costruttore d'auto è crescere. E con questo convincimento, ha comprato una quota della Chrysler, riscuotendo l'approvazione di tutti, compreso il presidente americano. E in effetti l'operazione sembra funzionare. Ha cercato anche di acquisire il controllo della Opel, la filiale tedesca della General Motors, ma è stato bloccato da veti politico-sindacali.
Pochi mesi fa ha assunto posizioni che lo hanno esposto a polemiche, critiche spietate. Persuaso che davvero la festa sia finita e che in Italia ci si debba rassegnare a produrre in condizioni concorrenziali, non ha esitato a decretare la fine di Termini Imerese, un impianto ormai non competitivo. A Pomigliano d'Arco non si è sottratto a uno scontro durissimo (tuttora aperto) con la Cgil. Scelte scomode, ma inevitabili per un capo azienda che ha (come diceva un vecchio slogan di casa Fiat) la volontà di continuare. Anche la sua recente freddezza nei confronti della Confindustria (è arrivato a minacciare un'uscita) è comprensibile, sottoscrivibile.
A non entusiasmare invece sono i risultati raggiunti da Marchionne come costruttore di auto: in sei anni ci si poteva aspettare qualcosa di più. Nella sua gestione c'è stata la 500, un successo certamente, ma di nicchia; c'è stata la grande Punto, ma era un restyling; c'è stata la Bravo, francamente sotto le attese, così come più o meno tutti i nuovi modelli Alfa. Insomma, non granché. Come gli ultimi dati di mercato testimoniano con la freddezza dei numeri. Ora ci si aspetta che quella metà del Lingotto che continuerà a occuparsi di quattro ruote abbia i cassetti pieni di progetti validi. La società (anche se dimezzata) si chiamerà sempre Fabbrica Italiana Automobili Torino.

Le automobili dunque dovranno esserci e in grado di difendere le quote di mercato.

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