Quel rampante ragioniere di Lodi che voleva sfidare il gotha della finanza

Da giovane direttore di banca, Fiorani sbaragliò la concorrenza offrendo consulenze e proponendo prestiti vantaggiosi. Il cambio di nome all’istituto (da Bpl a Bpi) prima di concludere l’operazione Antonveneta

Quel rampante ragioniere di  Lodi che voleva sfidare il gotha della finanza

Paolo Stefanato

da Milano

Ci sono delle azioni che ogni persona di buon senso non dovrebbe compiere, o delle frasi che non dovrebbe dire, prima che l’obiettivo sia raggiunto. Carlo De Benedetti in piena scalata alla belga Sgb, volò a Bruxelles e riferendosi al management dell’antico colosso dormiente arroganteggiò: «La ricreazione è finita». Fu la sua più clamorosa sconfitta. Raul Gardini, che con l’Eni gestiva in un fittizio equilibrio l’Enimont, dichiarò: «La chimica sono io», e violò anzitempo ogni patto. Finì come finì. Gianpiero Fiorani ha commesso, tra le tante, un’avventatezza che anche nel suo caso ha infranto qualunque scaramanzia: ha cambiato, in corsa, il nome della sua banca da Popolare di Lodi a Popolare italiana, quasi ad aumentarne la capacità geografica per poter inglobare un boccone grosso come l’Antonveneta. Ma, anche in questo caso, la partita era in gioco e incoronarsi vincitori prima del verdetto significa sfidare la sorte.
Questo Fiorani visionario, sognatore e un po’ spaccone ricorda Aristide Rougon, detto Saccard, il protagonista di uno dei più bei romanzi di Emile Zola, «Il denaro», nel quale si racconta di un’immensa speculazione finanziaria nella Francia imperiale di fine Ottocento. La crescita inarrestabile e spregiudicata di Saccard s’imperniò sulle operazioni della Banca Universale, che infiammò la Borsa di Parigi spingendo i titoli alle stelle, entusiasmando folle assetate di denaro. Crollò tutto rovinosamente in poche ore, una frana inarrestabile alla quale egli assistette quasi da spettatore. Saccard comprava giornali finanziari per influenzare l’informazione, della sua banca dichiarava un numero di azioni inferiore a quello effettivamente in circolazione, manipolava i corsi di Borsa. Centotrent’anni fa.
Anche Fiorani ha usato metodi spicci per costruire il suo castello. Ma le grandi imprese non sono possibili a tutti, occorre una marcia in più, nel bene o nel male. Non c’è fortuna senza un carattere determinato, senza la capacità di sedurre, senza l’abilità di persuadere. Fiorani questa marcia in più l’ha sempre avuta. Intorno al 1980 approdò come giovanissimo direttore della Banca popolare di Lodi alla filiale di Melegnano. Ebbe un’idea astuta. Offrì la sua collaborazione alla locale associazione commercianti e prese a insegnare tecnica bancaria ai corsi organizzati per chi voleva iscriversi al registro della Camera di commercio. La sua cattedra diventò un modo per conoscere negozianti e imprenditori della zona, cominciò a visitare botteghe, a stringere mani, a salutare tutti per nome, sempre la parola giusta per ognuno. Proponeva prestiti superiori a quelli delle altre banche, ingessate allo sportello; con il prestito dava fiducia e reciprocamente ne otteneva. Sbaragliò la concorrenza, tutti dissero: quel ragazzo ne farà di strada.
E in effetti a Melegnano durò poco. Lo mandarono ad aprire altri sportelli: la sua capacità di sprigionare simpatia era una grande risorsa che la banca aveva capito, e ben presto rientrò in sede, diventando il pupillo del direttore generale e padre-padrone della banca, Angelo Mazza. Fiorani a 25 anni era funzionario, a 28 direttore centrale, a 33 condirettore generale, a quarant’anni amministratore delegato. Un’ascesa vorticosa come la sua capacità di trascinare, e travolgente come la sua ambizione. Ma anche con tratti di umiltà: come quella di studiare la notte per nobilitare il suo diploma di ragioniere in una tardiva laurea in scienze politiche.
Il «modello Melegnano», in grande, è diventato il «modello Lodi». Le relazioni personali, questa volta ai massimi livelli, hanno portato il ragioniere di Codogno a intimizzare con il governatore della Banca d’Italia e con grandi famiglie dell’industria italiana, a tessere amicizie politiche e a creare uno zoccolo duro di azionariato stabile nella sua banca. Quando tre anni fa Lodi ospitò il Forex, per accogliere Antonio Fazio Fiorani affittò per tre giorni una grande villa e la arredò per l’occasione con mobili antichi, e qui la sera brindavano da amici a Cardinal Mendoza.
L’espansione è stata rapida, intuitiva, fatta in economia. L’idea più astuta fu quella di individuare come prede le Fondazioni bancarie costrette dalla legge a cedere le casse di risparmio. L’ingegneria era semplice: comprare carta contro carta, senza sborsare quattrini, incorporando la banca nel gruppo e accogliendo la fondazione nell’azionariato. Se occorreva del denaro, a sottoscrivere l’aumento correvano tutti i soci: Fiorani sapeva fare anche un miracolo, quello di piazzare gli aumenti anche quando le azioni in Borsa valevano meno del prezzo della nuova emissione. Era la misura della fedeltà degli azionisti e del loro credere in un progetto. In questa campagna acquisti frenetica, talvolta qualcuno gli attribuiva una nuova preda. Fiorani spesso rispondeva: «Troppo cara». E proprio questa sua attenzione al prezzo d’acquisto, e il suo contadino buon senso fecero apparire subito strana la scalata all’Antonveneta: troppo grande e troppo cara per i suoi standard.
È stato ideativo anche nel superare il modello cooperativo della popolare senza tradirlo, intrecciandone il modello con quello della spa, e usando a piacimento, con flessibilità, lo strumento giusto per l’operazione giusta.
Ma Fiorani è sempre stato uno spericolato, un simpatico bugiardo, capace di rimescolare le carte con l’abilità di un croupier e di superare gli infortuni con l’agilità del saltatore. Non solo nelle operazioni finanziarie, oggi al vaglio dei giudici, ma anche nel parlare, nel dare giudizi: e pure queste sono cose che nel tempo si pagano.

Dei vecchi banchieri, colleghi (magari farisaicamente) rispettati da tutti, diceva ridendo: «Più che alla poltrona ormai sono attaccati alla comoda». E si fidava, probabilmente, che nessuno andasse a riferire... Poi rimediava, da cattolico ragazzo d’oratorio: «All’inferno mai. Mille anni al purgatorio sì».

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