Quell’incubo chiamato metropoli

Il futuro del mondo sembra appartenere alle città. Lo confermano i dati della Biennale di Architettura di Venezia che documentano l’espansione delle megalopoli: dai 35 milioni di abitanti di Tokyo ai 16 di Shanghai. Gigantografie aeree mostrano le immani distese che ingoiano il territorio circostante. Se, come ha detto il direttore Richard Burdett, più della metà della popolazione del mondo vive oggi nelle città, è quello il luogo dove si gioca il ruolo dell’architetto, del progettista. Rimbalzano ovunque i nomi dei grandi protagonisti: Renzo Piano, Norman Foster, Richard Meier, Zaha Hadid, Arata Isozaki, Santiago Calatrava, Daniel Libeskind, Frank O’Gehry. Si sfidano in una gara alla spettacolarità e alla verticalità.
Ma le creazioni delle «archistar» sono costosi gioielli che splendono sul fango dei suburbi, delle favelas, dei quartieri dormitorio, dei tristi alveari dell’architettura sovietizzante anni ’70. Che non migliorano la città, semmai ne rendono più evidenti le contraddizioni. È stato osservato che la Biennale di Burdett ha destinato minor spazio all’individualismo dei grandi e maggiore attenzione ai dati umani e sociali delle metropoli. Ma perché colpevolizzare gli architetti? Da Vitruvio a Gropius progettare la città è sempre stato il sogno più alto dell’uomo, soprattutto occidentale, soprattutto italiano. Il miraggio della città ideale ha mosso i creatori di Pienza e Sabbioneta, fino alle città di fondazione degli anni Trenta.
Che cos’è accaduto poi? Nella seconda metà del XX secolo la città ha cominciato a sfuggire, a dilatarsi in un veloce e incontrollabile processo di metastasi. È avvenuto negli Usa, nell’America meridionale, in Africa, in Asia. È avvenuto in Italia. In misura minore, se consideriamo le cifre, ma altrettanto emblematica. In Italia, Paese che ha dato alla storia la qualità architettonica forse più alta del mondo, le città fino all’inizio del secolo scorso sono cresciute a un ritmo più o meno «tranquillo». Non era ancora l’epoca della progettazione funzionalista «dal cucchiaio alla città» ma edifici vecchi e nuovi e quartieri antichi e moderni si integravano quasi naturalmente. E l’edilizia illustre si distingueva da quella popolare più per il fasto che per la qualità estetica. Anzi, spesso dimostrava una felicità creativa e una funzionalità che ancora oggi stupiscono.
Quando la parte «povera» della città ha cominciato a diventare brutta? E perché gli interventi degli architetti, bellissimi sulla carta, sono falliti nella realtà? Perché il Corviale di Roma, lo Zen di Palermo, il Gallaratese di Milano suscitano critiche feroci? È su questo che oggi dobbiamo interrogarci. Su come migliorare la città, le sue estese periferie e non solo il suo centro. In Italia non abbiamo San Paolo né Mombasa, in compenso abbiamo le desolanti realizzazioni dei centri sorti dopo i disastri naturali (Lavarone, i paesi nuovi dell’Irpinia), abbiamo quella città diffusa che sta cancellando le campagne nel nord-est industrializzato, dove la colata di villette e capannoni salda ogni centro urbano all’altro. Forse è questa la sfida dell’architettura. Rallentare la città, ridarle ragionevolezza.

Non basta progettare i sontuosi «cetrioli» di cristallo di sir Norman Foster o far crescere i giardini sui tetti come Emilio Ambasz. Per fermare la città-incubo occorre una diversa volontà progettuale. Che è anche politica.

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