Una volta, ai tempi di Mao e dei piani quinquennali, larte cinese era tutta un tripudio di «realismo» socialista, un fiorire di «arte per le masse» pensata per educare milioni di individui attraverso limmagine. Guai a rifarsi allarte occidentale o, peggio, alla tradizione millenaria, alliconografia, del Celeste Impero. Questultima era infatti considerata ancora più deviazionista, mollemente borghese e intimista, con tutti quei paesaggi sfocati, le immagini dettagliate e graziose di fiori e uccelli.
Ma le cose ormai sono profondamente cambiate. Una brezza di mutamento appena percepibile ha iniziato a soffiare con Den Xiaoping a partire dalla fine degli anni 70. E oggi è diventata un vento impetuoso che riscuote, grazie anche al fascino di esotica novità, un grande successo presso i mercanti occidentali e le nostre gallerie e musei. Un successo che gli artisti e gli intermediari darte oltre la Grande Muraglia hanno subito tradotto, con lo spirito imprenditoriale loro proprio, in quotazioni a più zeri.
Per rendersi conto di quanto sia cresciuta, in qualità e varietà, la produzione cinese è utile percorrere le sale del Palazzo delle Arti di Napoli visitando «La Cina è vicina», mostra a cura di Diego Esposito che fornisce, sino al 25 febbraio, una panoramica completa dellevoluzione, dei gusti e degli artisti della cultura visiva made in China. Una carrellata che parte dallinfluenza della Pop art occidentale su pittori come Shi Xinning (che si è permesso di immaginare Mao mentre gioca a Las Vegas) sino ad arrivare alle giovani artiste come Cui Xiuwen che hanno messo la questione della condizione della donna, del sesso e dello sfruttamento al centro delle loro opere. Il tutto senza dimenticare quegli artisti, forse per noi occidentali i meno comprensibili, che hanno recuperato larte tradizionale come forma estrema di provocazione.
Quella generazione di artisti che non hanno paura di Mao
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