Quelle differenze tra il popolo del sì e la piazza dei no

Turi Vasile

Chi avantieri domenica è rimasto a casa ha potuto godersi per televisione due spettacoli di piazza a Roma. Il primo era molto affollato tra le braccia del doppio colonnato del Bernini, il secondo faceva il pieno con gente, bandiere, tralicci, gazebo, e palloncini galleggianti nella luce tersa del prolungamento di un ottobre scuro. Evidente però la sproporzione tra questo e quello, come tra un teatro da duecento posti e uno da mille.
In San Pietro il popolo era accorso spontaneamente al consueto appuntamento con la speranza; applaudiva con gioia e con commozione le parole del Papa che esaltava la virtù dei santi impegnati contro il male con aperto coraggio. Egli tra l’altro predicava: «La fede non si riduce a sentimento privato... ma implica la coerenza e la testimonianza anche in ambito pubblico». Tra i fedeli dell’Angelus parecchi visitatori occasionali attratti dal carisma del Pontefice, un piccolo uomo vestito di bianco e della luce della Grazia. È lecito definire quel raduno come l'assemblea del sì.
Poco lontano si svolgeva, quasi contemporaneamente, il comizio del no. «No, no, no!...» gridava Prodi bocciando tutte le iniziative, nessuna esclusa, prese dall’attuale governo dell’odiato Berlusconi. Egli rifiutava così di rispettare il calcolo delle probabilità che in una statistica seria riconosce almeno qualche cosa da salvare. Egli si affidava al suo calcolo, ansioso di contentare le numerose stecche del ventaglio che si assiepavano sul palco. Alla sua destra vigilava, a braccia conserte, un signore con un maglione, forse di cashmere, dal color verde erba che spiccava su tutti gli arcobaleni presenti in piazza. Quel dandy, arbitro di eleganza e rappresentante di poveri e di lavoratori, era Bertinotti.
Alle spalle di Prodi, Fassino molto simpatico e tenero quando non parla, controllava sottecchi il numero delle restanti pagine del discorso e da due o tre sbirciate all’orologio da polso tradiva un mal celato disagio. A ogni plaudente interruzione egli batteva le mani con delicatezza come chi lo fa per educazione, mentre Bertinotti applaudiva a mani levate come chi lo fa per claque.
Prodi sfoggiava la metamorfosi dal sorriso bonario del curato di campagna alla faccia feroce del contestatore globale. Alla finanziaria e alla riforma elettorale, temi promessi, solo limitati accenni; nella gran parte del discorso lanciava invettive accolte da acclamazioni.
Nell’affollatissimo palco dei pretendenti alle future, eventuali, cariche di potere, si distingueva la presenza di De Gasperi, non il grande statista s’intende, ma l’attore che lo ha interpretato nell’ambigua fiction diretta da Liliana Cavani. Il suo cognome fa Gifuni.
Rappresentava la categoria anche Mariangela Melato indignatissima contro il governo che ha ridotto i fondi destinati allo spettacolo. A qualcuna sono venute in mente le parole di Suso Cecchi d’Amico alla tuttologa Barbara Palombelli sul Corriere della Sera del sabato precedente: «Per far rinascere il cinema italiano... niente finanziamenti statali, nessun aiuto obbligato da parte del sistema politico...».


A chi credere: alla riconosciuta regina del cinema italiano, o alla valorosa attrice infervorata dalla passione?
Tutto sommato al duplice spettacolo domenicale molti si sono divertiti assai più che a Domenica in o a Buona domenica.

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