Cronache

Quelle vite inghiottite in un istituto per minori

Quelle vite inghiottite in un istituto per minori

Andrea ha tredici anni, gli occhi seri di chi non ride per un nonnulla, il fisico ancora da bambino. E vorrebbe stare un po’ con la sua mamma. Ma da solo, in casa con lei, magari dormire una notte nel lettone come faceva quand’era piccolo, o farsi fare due coccole sul divano mentre si guarda la televisione. Ma Andrea dalla sua mamma non può andare. Per carità non per colpa sua, lui non ha fatto niente, ma il giudice ha stabilito che siccome la sua mamma stava con un uomo violento che la picchiava, i suoi figli non possono vivere con lei. Così Andrea e la sua sorellina di 12 anni, tre anni fa, sono stati affidati ai servizi sociali e quindi a due istituti: divisi pure tra di loro, anche se non è tanto facile nemmeno per i grandi capire perché i fratellini che si vogliono bene debbano essere separati.
Intanto la mamma, che vuole loro bene sopra ogni altra cosa, ha denunciato il suo compagno, l’ha lasciato ed è andata a vivere per conto suo, nella zona di Marassi, trovando anche un lavoretto. Le hanno dato una casa dove c’è spazio anche per i suoi figli. Ma non li può riavere indietro. E vallo a far capire ad Andrea, che ora che la mamma sta bene, è libera, vorrebbe tornare ad essere una famiglia. Mica sempre, magari almeno per il fine settimana. Per stare anche un po’ con la sorella. Niente.
Così Andrea ha scritto una lettera al giudice del tribunale dei minori di Genova e ha chiesto di poter essere ascoltato. Ha aspettato. Ha aspettato ancora. Niente. Dopo qualche mese, visto che le cose non cambiavano, è scappato dall’istituto e la mamma se l’è trovato davanti alla porta di casa. L’ha stretto forte il suo bambino e l’ha riportato all’istituto, dopo aver telefonato per avvisare che stavano arrivando. Così le assistenti sociali hanno parlato con Andrea. E hanno deciso che per il momento era meglio che la mamma non la vedesse proprio. Nemmeno sentire la sua voce al telefono, per quella chiamata settimanale consentita dall’istituto era consigliabile.
Non importa che la mamma non sia una carnefice, bensì sia stata anche lei vittima di un uomo brutale. Nemmeno importa che i fratellini possano vedersi solo due volte all’anno: per i rispettivi compleanni. Nessuno è preoccupato che quel filo di amore che li lega possa spezzarsi compromettendo il loro futuro. Andrea piange per conto suo. Chiedendo di essere ascoltato dal giudice, che però non lo chiama mai.
La storia di Andrea è vera, anche se naturalmente omettiamo il cognome e altri riferimenti che potrebbero farlo identificare. Ma potrebbe essere la storia di Luca, di Marta, di Lucia, Fabio, Luigi, Matteo, Vincenzo, Fabrizio, Francesca. E dall’altra parte non solo mamme, ma anche papà che guardano il calendario smarcando i giorni che li separano dal successivo colloquio.
Gli istituti per minori allontanati dai genitori sono pieni di storie come questa. Le case famiglia accolgono per sentenza centinaia di bambini che una casa normale non la possono più avere. È una tutela, certo, per i minori che subiscono abusi, o che potrebbero subirne. Ma non dev’essere una strada senza sbocco. Né senza ritorno. In Italia le stime parlano di 20 mila minori in istituto. A Genova sono molte centinaia. Eppure non tutti hanno entrambi i genitori impossibilitati a tenerli. magari dopo un po’ di tempo le cose cambiano, migliorano. La separazione, come nel caso di Andrea, potrebbe affievolirsi. Ci sono anche bambini che come Andrea una vera mamma, anche se fragile e magari da sostenere, ce l’hanno. A cosa servono sennò i servizi sociali? Anche a guidare il percorso di famiglie come quella di Andrea, di sua sorella e della loro mamma, diciamo noi. Ma è qui che scatta il cortocircuito. Quando gli avvocati non riescono a interloquire con i Servizi sociali che parlano solo con i genitori, spesso nemmeno vengono ascoltati dai giudici che li rimandano alle assistenti, in una specie di triangolo delle Bermude dove vengono inghiottite tante vite. Perché? In una recente inchiesta del quotidiano la Repubblica si parla di business delle case famiglia, che ricevono dai Comuni rette dai 70 ai 120 euro al giorno per ogni minore che ospitano.
C’è un fatto che deve far riflettere. Il minore resta tale fino al giorno in cui compie 18 anni. La maggiore età significa farsi una valigia e uscire dalla porta della casa famiglia per non farvi più ritorno. Da soli.

E a quel punto l’unica salvezza resta quel genitore allontanato che, forse, non si conosce nemmeno più.

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