Controcultura

Quell'Italia "di latta" che si piegò a tutto

"Nel groviglio degli anni Ottant" troviamo le radici del Paese attuale

Quell'Italia "di latta" che si piegò a tutto

Nel groviglio degli anni Ottanta (Einaudi, pagg. 303, euro 30), di Adolfo Scotto di Luzio, ha come sottotitolo «Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi», ovvero la stessa del suo autore, venuto al mondo più o meno al tempo del Sessantotto ruggente, decenne durante il Settantasette di piombo, ventenne quindi quando fra paninari, Tempo delle mele e pantere universitarie quell'epoca giungeva al suo termine senza aver bene afferrato il perché del suo inizio. Scotto di Luzio ha senz'altro ragione quando osserva che si tratta comunque di un decennio esemplare, quanto a coscienza di sé e coerente nel suo autodefinirsi, ma il fatto stesso che una buona metà del libro sia dedicata, come dire, alla elaborazione del lutto di ciò che c'era stato prima, è la spia di una fragilità congenita, una sorta di eterna età del rimpianto con annessa pedagogia del rimpianto, quella che, come lo stesso autore deve ammettere, farà «del cosiddetto riflusso la base di una compiuta formazione giovanile».

Ben scritto, senza sociologia d'accatto né birignao accademico, si capisce che Nel groviglio degli anni Ottanta ha più a che fare con le aspirazioni e le delusioni dell'autore al tempo dei suoi vent'anni che con il suo successivo percorso professional-universitario, più una confessione, in stile educazione sentimentale, che un saggio critico. Questo rende più attraente la lettura, ma impedisce una riflessione compiuta, mantenendo cioè la visione sia di quel periodo, sia di quello che l'ha preceduto, all'interno di una mitizzazione rivoluzionaria che se è in qualche modo consolatoria non è per questo meno falsa. In sostanza, non ci fu prima nessuna rivoluzione a cui non si fece in tempo a partecipare, quindi sarebbe stato meglio dopo non piangersi addosso, tantomeno sentirsi in colpa o chiamare in causa il destino cinico e baro...

Venendo più strettamente agli anni Ottanta, ciò che un po' resta fuori dall'educazione-confessione di Scotto di Luzio, spesso troppo colta nel suo nutrirsi di esempi alti, musicali, artistici, letterari, è una certa animalità viscerale che ne fu anche la sua cifra esistenziale, divenuta in seguito un dato di fatto del nostro Paese. Per esempio, nella conta dei fagioli di una celebre trasmissione televisiva della Raffaella Carrà di quegli anni c'è la televisione dei Fatti nostri che poi trionferà, da Funari a Zoro, Del Debbio, Giordano, Piazzapulita, passando per Lerner e Santoro; l'Italia di Toto Cutugno anticipa quella del presidente Ciampi e poi di Napolitano e di Mattarella; il bon ton di Lina Sotis prepara quello di Flavio Briatore; lo storico primo incontro fra metalmeccanici e comunità gay a Bologna («sono d'accordo con il compagno busone che ha parlato prima») è il viatico per i Vendola politici...

Ci sono gli yuppies, i paninari, le finte bionde, le casalinghe che giocano in Borsa, i Rambo di Sylvester Stallone e I fichissimi di Diego Abatantuono. Ci sono anche i fatti tragici, talmente tanti che l'idea del decennio riflussato e de-ideologizzato necessita di qualche messa a punto. Strage di Bologna, scandalo dei petroli, terremoto in Irpinia, Ustica, assassinio di Walter Tobagi, dell'ingegner Taliercio, del generale Dalla Chiesa, sequestro Dozier, attentato al Papa... Si può anche mischiare il sacro al profano, «Gei Ar» e Enzo Tortora, i Duran Duran e Sigonella, Michele Sindona e il segretario del Pci Alessandro Natta sfottuto sulle pagine di Tango. Resta memorabile il ricordo dei politici canterini alla trasmissione Cipria: il socialdemocratico Michele Di Giesi che canta L'uccellin che vien dal mare, il repubblicano Oddo Biasini che gorgheggia Signorinella, il democristiano Calogero Mannino impegnato con la Turandot, il liberale Alfredo Biondi con Buon anniversario... Poi ci si domanda da dove venga il discredito della nostra classe politica. Quel decennio si apre con la morte di Pietro Nenni e si chiude con l'esordio televisivo di Gigi Marzullo e questo vorrà pur dire qualcosa. A livello internazionale però c'è il crollo del Muro di Berlino, c'è Tien an Men. Solo allora il Pci penserà di cambiare il nome e anche questo vorrà pur dire qualcosa.

Ciascuno si porta dietro i propri ricordi e non è detto che generazionalmente siano gli stessi. Edonisti reaganiani, ragazzi dell'85, post-femministe, post-rivoluzionari, post-compagni, post-fascisti, pentiti e post-pentiti del giornalismo, del sesso, dell'ideologia, mai della vita, impiegati in stile Dynasty, nuovi soggetti politici ed economici: marxisti delusi e liberali perplessi, teorici appassionati dell'effimero e teorici dell'utile personale.

Lo stabilire se il mutamento sia stato in meglio o in peggio è naturalmente una valutazione soggettiva. Personalmente, ciò che di quel decennio non mi piaceva era proprio quel combinato disposto di rampantismo, menefreghismo, cinismo, arrivismo, fancazzismo e qualunquismo (di Sinistra, pensa un po') che emerge plasticamente da esso. C'era un generale ritorno all'ordine nell'idea che tutto fosse già stato detto, pensato, e nella speranza che lo sfruttamento intensivo delle posizioni, il cambiare disinvoltamente bandiera, garantisse il funzionamento del sistema. Non si credeva più nei partiti, ma si continuava a usarli come moneta di scambio, non si sognavano più rivoluzioni, mai del resto avvenute, ma l'averle sognate garantiva la cooptazione nei centri di potere, si praticava l'edonismo di massa con la stessa disinvoltura con cui prima si era vissuto il pauperismo da comune. Non sorprende che poi sia saltato tutto.

Se dovessimo racchiude gli Ottanta in una definizione, potremmo azzardare quella di «anni di latta». Abbiamo avuto gli anni della ricostruzione e quelli del boom, gli anni della contestazione e quelli del piombo: v'era latta anche in essi, ma non era predominante, non era il materiale di base. La latta è vile, cedevole, priva di valore. Il nostro tessuto umano e sociale non è stato da meno. Tuttavia, per uno di quei curiosi paradossi su cui il destino si diverte a farci inciampare, più si è piegato, si è acconciato alle altrui esigenze, e più ha racchiuso in sé una violenza inerte, fatta di sfiducia, di inimicizia, di egoismo, molto più forte di quella data, in altri tempi, dallo scontro fra opposti modi di essere e di esistere. In quel decennio non ci sono modelli antagonisti fra loro nella società, ma un modello vincente che l'avvolge e la permea. Schiacciato sul versante dell'essere, si è mostruosamente, patologicamente, sviluppato su quello dell'apparire. I ragazzi dell'85, per esempio, sono stati sì un'invenzione dei media - per quello che concerneva la loro presunta volontà di cambiamento, il loro essere un nuovo soggetto politico - ma altresì sono apparsi come la rappresentazione plastica di un look che è proprio di ogni movimento emergente per età e per potere. Fra essi e gli yuppies quarantenni non v'era distonia né crisi. I primi erano in fieri i secondi; questi, seppellite frettolosamente le ubbie alternative della loro giovinezza, frutto della dittatura della moda politica, si erano sottoposti a un lifting che cancellasse ogni segno di diversità, per entrare di diritto nella «nuova società».

Se si riflette bene, si vedrà come l'Italia di oggi è il puro prodotto di quella generazione degli Ottanta che, pur nata in ritardo, mancando, come scrive Scotto di Luzio, «un appuntamento decisivo con la storia», non per questo non ha saputo fare bene i suoi conti rispetto alla cronaca.

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