Stavolta lesasperazione cancella anche la devozione per lo studio del «mahayana» e delle sacre sutras. Stavolta la rabbia trascina i lama fuori dai tempi, li porta nelle piazze, li spinge al suicidio, alla lotta, persino alla violenza. Succede tutto nelle ultime 24 ore. Prima la rivolta, il mercato di Lhasa in fiamme, le sparatorie della polizia, poi quei due fratelli, Kalsang e Dsamchoe, che saffacciano dalle sale del tempio di Drepung e si presentano ai fedeli. Allimprovviso nelle loro mani scintilla la lama di un coltello, trancia le vene dei polsi, ferisce le braccia, affonda nel petto, sinfila nella carne scompare per tre volte mentre la tunica saccende dun screziato rosso vermiglio. La piccola folla li guarda stupefatti, altri fratelli li raccolgono, li trascinano nellinfermeria del santuario. È lestremo sacrificio, lofferta della propria carne, del proprio dolore e della propria vita.
Atti, gesti ritualità lontane nel tempo, ma simili a quei roghi umani che al negli anni del Vietnam scandivano la protesta contro la guerra americana. Non occorre neppure andare così lontano. Oggi i monaci tibetani sono protagonisti della protesta al pari dei loro fratelli birmani, al pari di quelle tuniche zafferano che a settembre guidavano la rivolta contro la protervia della dittatura di Rangoon.
Stavolta la sfida dei figli della pace e dello studio contemplativo, la prova di forza di questa comunità silenziosa prigioniera di templi e riti antichi è ancora più ardita. Stavolta i lama sono più che mai Davide contro Golia, sono la forza della devozione e della fede contro uno dei tre giganti del mondo, contro la protervia della tigre di Pechino, contro loceanica, universale indifferenza di chi nella rappresentazione olimpica annega 57 anni di occupazione, repressione, sottomissione. Come ventanni fa, come in quel disgraziato 1989 quando Hu Jintao, oggi presidente della Cina allora capo dei comunisti tibetani, ricorse alla legge marziale per spegnere nel silenzio della repressione la collera delle folle e dei monaci. A risvegliare la collera del «tetto del mondo» ventanni dopo non è solo il grido «Tibet Tibet» lanciato dalla cantante Bjork dal palcoscenico del concerto di Shangai.
«Sono stati ventanni di soprusi, ingiustizie e assimilazione durante i quali i monaci tibetani e tutto il nostro popolo ha atteso e sperato che il mondo facesse qualcosa, che qualcuno prestasse attenzione alle nostre sofferenze e levasse la voce contro Pechino - spiega al telefono Bo Mu Tsering presidente delle donne tibetane in esilio - ma nessuno ci ha ascoltato per questo i monaci hanno deciso che era tempo di far sentire la loro voce, di portare nelle strade la rabbia e la sofferenza del popolo».
La sua voce risuona da Dharmsala la residenza indiana del Dalai Lama e di tutte le principali comunità tibetane in esilio. In quella voce, nel racconto di questo ventennio di paziente, rassegnata attesa riecheggia la paura di una rottura, il timore di una frattura sempre più netta tra il Dalai Lama, il grande padre e maestro simbolo dal 59 in poi del Tibet in lotta, e la nuova generazione di monaci di Lhasa cresciuti nei templi a libertà vigilata. «Per cinquantanni - dice Bo Mu Tsering - abbiamo aspettato e sperato... anche oggi il Dalai Lama si è rivolto alla Cina, ha implorato la fine delle violenze, ma lì, a Lhasa, nella nostra terra la gente è stanca di aspettare, vogliono sfruttare loccasione delle Olimpiadi, vogliono accendere i riflettori del mondo sulla condotta dei cinesi, farli venire allo scoperto, costringerli a esporre la vergogna delloccupazione».
Gianni Sofri, docente universitario ed esperto di questioni asiatiche e della questione tibetana lo spiega ancora più chiaramente.
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