Rabbia e detective spacconi a Harlem

S arà capitato a molti lettori di veder le immagini di un video musicale avente per protagonista un rapper di colore che, con occhiali scuri, abiti firmati e gran profusione d’oro, scandisce scioglilingua slang in una situazione semiorgiastica in cui donne più nude che vestite danzano sinuose e ammiccano. Con ogni probabilità, le immagini vi avranno colpito più della musica e, con una certa sorpresa, avrete notato che tra quelle donnine sfacciate figuravano ragazze di colore ma anche qualche bianca, quasi per dimostrare il ribaltamento dei ruoli che, fino a qualche tempo fa, era stato appannaggio solo di Mandingo e di qualche altro raro personaggio dell’immaginario collettivo americano.
Chester Himes non era certo un cantante di Hip Hop e qualcosa mi dice che avrebbe mal digerito la mancanza di buongusto e le smargiassate dei vari Puff Daddy e Jay Z. Eppure, quella del superamento della subalternità sessuale che tradizionalmente i ricchi proprietari terrieri del Sud degli Stati Uniti avevano imposto alle schiave di colore, con un’abbondante progenie di meticci illegittimi, fu una vera e propria ossessione tematica per uno dei più grandi e misconosciuti talenti della letteratura poliziesca hard boiled.
Nato da una famiglia afroamericana della classe media a Jefferson City, Missouri, nel cuore del Midwest, Chester Himes visse con qualche difficoltà la dura separazione dei genitori. Come ebbe spesso a dire, sua madre «sembrava bianca ed era convinta che sarebbe dovuta nascere bianca» e tale frustrazione deve aver lasciato traccia nel giovane. L’insoddisfazione nel vedersi trattare come persona di colore e non in virtù delle sue capacità, alimentò la rabbia, elemento portante della sua creatività. E della sua personalità. Espulso dall’università per intemperanze e finito in galera all’età di diciannove anni, fece il suo tirocinio letterario dietro le sbarre. Dopo aver debuttato nel 1945 con il romanzo E se grida, lascialo andare e dopo essersi sentito vittima di ostracismo dai produttori hollywoodiani per i quali aveva provato a lavorare, cercò asilo umano e artistico nella vecchia Europa dove, a suo dire, sarebbe stato al sicuro dal razzismo e da una personale pericolosa propensione agli attacchi di violenza incontrollata. Nel 1953 approdò in Francia e nel 1969 in Spagna, dove morì di Parkinson nel 1984. E fu proprio in Francia a raccogliere i maggiori consensi di pubblico e di critica, concependo la sua serie di maggior successo, gli otto romanzi degli improbabili detective afroamericani Grave Digger Jones e Coffin Ed Johnson, apparsi per la prima volta in Rabbia ad Harlem e le cui smargiassate ai limiti della legge lanciarono a cavallo tra gli anni anni ’60 e ’70 un vero e proprio movimento culturale, la Blaxploitation, celebrata da pellicole come Shaft e Superfly.
È in questo contesto che si colloca il romanzo Cieco, con la pistola (BUR, pagg 260, euro 9,80), un’avventura dei rissosi Jones e Johnson. Nella Harlem lercia, maleodorante, moralmente abbietta di Himes si riconosce appena qualche tratto del quartiere odierno di New York, in procinto di tornare a essere la zona ricca che era prima di essere abbandonata ai diseredati di colore. La sua Harlem è un inferno nero in cui si compiono riti di un cristianesimo anomalo, dai tratti paganeggianti. Non a caso, Cieco con la pistola si apre con l’irruzione della polizia nello strano covo di quello che non si capisce bene se sia un santone o un pappone attorniato da prostitute travestite da suore. La sua Harlem non era posto per Bill Cosby, Diana Ross e Muhammad Ali né potrebbe esserlo per Kobe Bryant, Beyoncé e Tiger Woods. Di certo non per il presidente Obama, che forse Chester Himes avrebbe definito un fighetto slavato. In questo romanzo non manca alcuna delle caratteristiche di Chester Himes: c’è la prosa ruvida; ci sono le tematiche a lui care e così sentite presso il popolo afroamericano; c’è l’orgoglio nero che si trasforma in tracotanza; c’è un pessimismo che di rado permette all’ironia di mitigare la dura realtà. C’è soprattutto la cultura ancestrale africana, semplice e grezza, destinata a svecchiare la protervia della vecchia Europa inconsapevolmente importata in America proprio da quei profughi religiosi che avevano lasciato il Vecchio Continente al fine di sfuggirle.
Chester Himes, comunque, fu tra i primi a cogliere l’attrazione reciproca, spesso fisica, tra bianchi e neri. E il conseguente scimmiottamento di stili e modelli di vita.

Cieco con la pistola è uno dei rari momenti in cui la sua insofferenza per la mediocrità e l’ipocrisia della società americana si stempera gradevolmente in una avventura scatenata fra ciarlatani, truffatori e boss della mala.

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