La rabbia leghista: «Rischiamo per i guai del Pdl»

RomaÈ più verde del solito, la truppa del Carroccio. Ma a rendere più intenso il colore sociale non sono mica le cravatte d’ordinanza, a cui ormai nessuno, a Montecitorio, fa caso. È il travaso di bile verso il Pdl, giustificato in parte pure dagli ex azzurri, a far montare la rabbia tra i deputati della Lega. «Se fossimo sicuri di un atto di malafede, saremmo già usciti dall’Aula, e non solo...». È il via libera mattutino all’inversione dei testi da esaminare in assemblea, su richiesta del Pd, a far storcere il naso ai padani. Maggioranza battuta per tre voti di scarto e rinviato ad oggi l’esame del decreto sugli Enti locali, cavallo di battaglia degli uomini del Senatùr, su cui è impresso il timbro di Roberto Calderoli. E invece si discute di cure palliative, grazie, si fa per dire, all’astensione di tre pidiellini («sono stati tre medici, andrebbero buttati fuori», è addirittura l’autodenuncia interna), ai cinque colleghi usciti di soppiatto al momento di schiacciare il ditino e alle numerose assenze nel gruppo più numeroso. «Si giustificano con il traffico romano? Ma vadano a lavorare nei campi...», è lo sfogo di un leghista, che alla buvette preferisce, forse non a caso, uno yogurt al caffè.
Insomma, è la cornice in cui s’inserisce una tela già di suo non proprio limpida. Così, buon viso a cattivo gioco, sembra essere la linea impartita da via Bellerio. E, soprattutto, bocche cucite, a taccuino aperto, sul «casino» delle liste del Pdl, sul decreto, sul Tar, sul Consiglio di Stato, sul rinvio delle elezioni... Ritornello: «Non abbiamo niente da dire, la decisione spetta ai magistrati». Oppure: «Non scriva, la prego, non citi il mio nome». Al secondo succo d’ananas, però, qualcuno inizia a sbottonarsi. «Affermare che gongoliamo, per la cialtroneria di alcuni pidiellini, forse è esagerato. Certo, è indubbio che usciamo rafforzati tra la nostra gente, che non si sentirà mai tradita da noi. Ma è anche vero che al Nord rischiamo di complicarci la vita e di subire, chissà, gli effetti di errori altrui».
La paura, tra i leghisti, è che a risentirne, «senza la minima colpa», possa essere quindi anche il simbolo raffigurante Alberto da Giussano, con cui si punta al sorpasso in Veneto: «Per questo motivo non commentiamo». Tradotto: «Ci teniamo alla larga per non venire invischiati in questa vicenda e per evitare che anche noi dovessimo dare rassicurazioni poi disattese». In ballo, spiegano, non c’è mica lo zoccolo storico, quello duro e puro, ma il popolo del Nord che vota saltuariamente il Carroccio. Come avvenuto ad esempio alle scorse Politiche, quando il partito di Umberto Bossi fece il pienone tra gli operai delle fabbriche, un tempo bacino di consensi per la sinistra.
È un ragionamento semplice, come spesso accade, quello che viene fuori tra una chiacchierata e l’altra. «Noi abbiamo fatto tutto secondo le regole, come sempre, altrimenti saremmo volati dalla finestra». E per dirla tutta, «se la Polverini dovesse perdere, nel Lazio, non ci importerebbe poi così tanto». Anzi, aggiunge il maligno sorridente, «forse sarebbe meglio, così qualcuno a Roma tornerebbe a volare basso». In alternativa, la provocazione: «La prossima volta ci candidiamo qui, così dimostreremo come si raccolgono le firme». Vabbè, non è mica detto che il ministro per le Riforme la pensi come il deputato veneto o lombardo, però il segnale di un malessere da campagna elettorale, tra alleati, appare evidente. Anche se Carolina Lussana prova a gettare acqua sul fuoco: «Malumori? Non mi risultano, siamo tranquilli». Sarà così.

Poco più in là, però, un leghista col magone per le sue valli rintuzza: «Sono quelli del Pdl a lamentarsi per primi e ad ammettere che così com’è il partito unico non va». È un riferimento a Gianfranco Fini? Il parlamentare strizza l’occhio e va via: «Devo rientrare in aula, tra un po’ si vota». E la sirena tornò a risuonare, stridula, in tutto il Transatlantico.

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