In Rai si ferma

Si dice che la Rai sia un’azienda morbida come la creta e pronta a cambiare d’abito velocemente, anticipando il mutare delle stagioni politiche. Ma anche che sia una struttura che si riposiziona soltanto quando i verdetti sono sicuri e la scommessa pre-elettorale è a basso rischio. Per questo andare a fiutare gli umori di viale Mazzini e tentare di scoprire le carte interne è sempre un esercizio utile a fotografare il momento politico: una sorta di sondaggio senza percentuali affinato da decenni di osservazione privilegiata sui palazzi della politica.
«Fino a qualche settimana fa la corsa a smarcarsi dal centrodestra era visibile a occhio nudo» racconta rigorosamente off-records un dirigente del servizio pubblico radiotelevisivo. «Il copione era più o meno sempre lo stesso: dichiarazioni critiche verso un certo tipo di gestione, manifestazioni di stima verso il presidente Petruccioli e l’enunciazione pubblica e sdegnata, magari in una riunione o in un corridoio, di una certa quantità di episodi del passato in cui il “riposizionando” sarebbe stato penalizzato per la sua presunta mancanza di fedeltà o di ortodossia verso il centrodestra».
E sì, perché come è noto un curriculum, anche un po’ stiracchiato, da epurato speciale funziona sempre in queste circostanze ed è invocato come una sorta di benedizione, un salvacondotto per il futuro.
Qualcosa, però, nelle ultime settimane è cambiato. I tentativi di saltare il fossato e accomodarsi sul promettente fronte del centrosinistra si sono fermati. E l’arte della fuga si è trasformata in una musica d’attesa. Il motivo? Semplice, la granitica certezza della vittoria dell’Unione ha subìto alcune incrinature. E ora il barometro di viale Mazzini indica tempo variabile. Nel senso che un verdetto elettorale secco, che possa davvero arridere a una delle due coalizioni, regalando sole o pioggia a seconda delle proprie appartenenze politiche, viene dato in ribasso. E nei corridoi della Rai si scommette con sempre più frequenza sull’ipotesi di un pareggio. Una prospettiva che, ovviamente, ha come naturale conseguenza quella di bloccare tutte le grandi manovre in corso e consigliare prudenza.
L’incertezza sul verdetto elettorale è corredata da un’altra circostanza che consiglia cautela: la nebbia che ancora circonda lo status giuridico di Alfredo Meocci. Il direttore generale di Viale Mazzini è ancora in attesa della decisione del Consiglio di Stato, chiamato a stabilire se la sua nomina sia o meno incompatibile con il suo precedente incarico da commissario dell’Authority delle Comunicazioni. Il tribunale ha acquisito tre pareri pro-veritate che, in base alle indiscrezioni, sarebbero tutti favorevoli alla permanenza dell’ex giornalista del Tg1 a viale Mazzini. Ma il Consiglio di Stato, con ogni probabilità, passerà la palla all’Authority Tlc e lascerà a lei l’incarico di sbrogliare la matassa. È chiaro che fin quando non saranno stati sgombrati tutti i dubbi sul futuro dell’attuale dg difficilmente il «partito Rai» deciderà di investire nel rapporto con Meocci, magari prospettando possibili scenari post-elettorali.
Quel che è certo è che molti dirigenti Rai guardano con sempre maggiore attenzione a Giovanni Minoli, l’uomo che in caso di vittoria del centrosinistra viene dato come il più probabile candidato alla direzione generale (l’ex presidente e ora parlamentare Roberto Zaccaria, invece, non fa mistero di aspirare al ministero delle Comunicazioni).

L’attuale direttore di Rai Educational potrebbe essere chiamato a sviluppare un progetto a cui l’Unione sta lavorando sottotraccia: trasformare una rete in un canale interamente dedicato al servizio pubblico sul modello della rete pubblica statunitense Pbs provvedendo, al contempo, a una robusta cessione ai privati di molti rami d’azienda della Rai. Il tutto senza dimenticare di fissare il limite massimo di due reti televisive per ogni operatore. Colpendo così Mediaset nel vivo dei suoi interessi e riaprendo ancora una volta la «questione Retequattro».

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