Politica

La rapina dei banchieri americani

Questo non è più capitalismo, ma la sua tragica parodia ed è arrivato il momento di dire basta. Sì, basta a una casta, quella dei banchieri di Wall Street, che, a conti fatti, è l’unica a non pagare il prezzo del crollo dell’economia mondiale che lei stessa ha provocato. Alzi la mano chi è passato indenne da questa crisi. Il valore delle azioni è dimezzato, i prezzi delle case continuano a calare, decine di migliaia di aziende rischiano di chiudere minacciando di lasciare a casa milioni di lavoratori. Siamo arrabbiati, delusi, preoccupati. Ma loro no. A parte Madoff e pochi altri, continuano a mostrarsi sorridenti, felici, fiduciosi. Il mondo crolla e a loro non importa nulla; perché anche nell’anno del grande crash si sono arricchiti, come ha scoperto un contabile dello Stato di New York, l’italomericano Thomas DiNapoli, scrutinando le loro dichiarazioni dei redditi. Nel 2008 i manager delle banche americane hanno incassato bonus per 18,4 miliardi di dollari. Ma, vien da obbiettare, il bonus non viene accordato quando il bilancio è in utile? Ovvio che sì. E siccome gli istituti hanno triplicato le perdite, costringendo il Congresso americano, lo scorso ottobre, a stanziare 700 miliardi per scongiurare la bancarotta del sistema finanziario, loro non dovrebbero prendere nemmeno un dollaro. Venuta meno la tensione morale dettata dal confronto con l’impero sovietico, l’America ha perso progressivamente quelle virtù etiche, quella capacità di controllare eccessi e sprechi, con pesi e contrappesi, che molto spesso noi italiani abbiamo invidiato. E il potere si è trasferito anno dopo anno dai politici ai finanzieri. Ammettiamolo: sono stati bravissimi. Di più: geniali. Con la complicità di K Street, la via dei lobbisti, hanno indotto il Congresso ad approvare una legislazione che li metteva al riparo da conseguenze penali; nonostante il caso Enron e il crack di Worldcom. Nel frattempo hanno piazzato i loro uomini nel cuore del governo: il banchiere Rubin era il ministro del Tesoro di Clinton; l’ultimo di Bush, Paulson, è stato prelevato direttamente dai vertici di Goldman Sachs. Ed è iniziata la grande festa, rigorosamente bipartisan. Già, perché le leggi che hanno permesso la folle liberalizzazione dei derivati e la fine della separazione tra banca d’affari e banca commerciale, sono state approvate con il voto sia dei repubblicani sia dei democratici. Per quindici anni il mandarinato dei banchieri di Wall Street è riuscito a plasmare ampie porzioni dell’economia mondiale con un solo orizzonte: l’arricchimento speculativo. E un unico beneficario certo: loro stessi. Fino agli anni Novanta le grandi fortune venivano create nell’arco di decenni, spesso attraverso il lavoro di più generazioni. Gli industriali, i banchieri, quelli veri, rischiavano in prima persona. Se andava bene diventavano miliardari, se andava male finivano sul lastrico. E si vergognavano da morire. Negli ultimi tempi, invece, bastavano quattro-cinque anni al vertice di una banca d’affari o di una multinazionale per ottenere ricchezze esorbitanti, molto superiori a quelle dei grandi industriali di un tempo, senza mai rischiare nemmeno un centesimo in proprio, bensì sempre il capitale degli altri. Avidi e mai sazi. L’ultima rapina, da 18,4 miliardi, sublima il loro credo: arraffa, arraffa, arraffa. E solleva una questione ormai ineludibile: è giusto salvare le banche se la casta non viene smantellata? Piagnucolano, implorano aiuto, fanno valere il più odioso dei ricatti: «Liberateci dai debiti o saremo costretti a rovinarvi tutti». Aspettano che la bufera passi, per poi ricominciare. E invece bisognerebbe cacciarli, come da tempo chiede, inascoltato, Tremonti. «A casa o in galera», dice. Sarebbe meglio in prigione. Via tutti per lasciare spazio ai veri capitalisti, che non hanno mai smesso di credere in un valore intramontabile, quello della responsabilità personale.
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