Non poteva che intitolarsi «Smash his camera» (ovvero «distruggi la sua macchina fotografica») il documentario che il premio Oscar Leon Gast ha dedicato alla vita e al celeberrimo lavoro di Ron Galella, considerato non ha torto il principe dei paparazzi. Oggi è un simpatico ottantenne che vive rintanato a New York, ma negli anni Sessanta e Settanta il suo nome era sussurrato con timore reverenziale da tutto il jet set. E il senso del suo lavoro (e del suo successo) è tutto in una frase di Andy Warhol: «Una buona fotografia deve ritrarre una persona famosa mentre fa qualcosa di non famoso. Il suo essere nel posto giusto al momento sbagliato. Ecco perché il mio fotografo preferito è Ron Galella». Correva l'anno 1979 e Galella aveva già alle spalle innumerevoli incidenti di percorso, vittima delle sfuriate di vip di primo piano come Marlon Brando e Jaqueline Kennedy Onassis. Quest'ultima lo denunciò, il divo del «Padrino» e di «Ultimo tango a Parigi» gli ruppe la mascella. Mentre il posato Steve McQueen si limitò a lanciargli uno «sguardo assassino» che Galella non ha mai dimenticato. Leon Gast nel suo documentario sul celebre fotografo (presentato all'ultima edizione del Sundance film festival e che verrà portato anche da noi sul piccolo schermo il prossimo 28 febbraio da Studio Universal) ne offre un ritratto fedele. Classe 1931 (ottant'anni compiuti a gennaio) e con un passato da reporter di guerra in Corea, Ron Galella è il più noto fotografo americano di celebrità: tra gli anni Sessanta e Ottanta testate come «Life», «The New York Times», «People», «The Star» e «Vanity Fair» hanno fatto da cornice ai suoi scatti.
Come egli stesso sostiene «Il mondo è ossessionato dalla fama», e di questa ossessione Galella ne ha fatto una professione, faticosa e spietata se volta a catturare l'anima della persona, il suo momento più «umano» e spontaneo. Ron Galella ha così rappresentato una vera persecuzione per molte celebrità della sua epoca: Steve McQueen, Al Pacino, Cher, Andy Warhol, Jack Nicholson.
Com'è il paparazzo secondo Ron Galella? Come lui stesso racconta, l'arte dei paparazzi prevede alcune semplici regole: «Impara a intrufolarti negli eventi, non farti scrupoli; vestiti sempre in maniera adeguata e ricordati di lasciare il cappotto in macchina (se sei senza cappotto gli altri penseranno che sei andato fuori a prendere una boccata d'aria e sei rientrato); fatti subito un'idea di dove sia la cucina (è da lì che si entra) oppure procurati l'invito, vai da qualcuno che è stato invitato (oppure vai in una topografia, duplica l'invito, e sostituisci il tuo nome con il suo); e ancora: scatta velocemente (solo così cogli l'espressione di sorpresa e giochi d'anticipo con chi non vuole essere fotografato)».
Definito dalla stampa «paparazzo extraordinaire», i suoi «ritratti fotografici» sono una testimonianza unica della storia del costume americano e italoamericano: attraverso le sue istantanee (il primo scatto «rubato» fu per Jacqueline Kennedy nel 1967), Galella ha saputo raccontare i grandi divi del cinema, della musica e della moda internazionali. Lui stesso afferma: «Il mio approccio prevedeva di cogliere le celebrità nel loro ambiente. E di insediarmi e scattare, senza chiedere loro il permesso, una foto rapida e sincera».
Ammirare il documentario di Leon Gast significa soprattutto sottolineare le differenze tra il mondo di Galella e quello dei paparazzi di oggi. Muniti soprattutto di teleobiettivo, questi ultimi cercano soltanto di violare senza sporcarsi le mani la privacy dei vip e di mostrare il «soggetto» nella sua «nudità» indifesa.
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