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Il re delle scommesse inglesi vuole dall’Italia 1,5 miliardi

Stanleybet - rampante bookmaker di solide tradizioni British - punta tutto contro il Belpaese e chiede al governo italiano un risarcimento da 1,5 miliardi di euro. Alla fine vincerà Stanleybet o il nostro Stellone? Si accettano scommesse. Sì, ma con calma. Molta calma. A tenere il «banco» è infatti il Tribunale civile di Roma a cui la compagnia inglese si è rivolta per «avere giustizia». Ignorando forse che da noi i tempi della giustizia (soprattutto di quella civile) sono inversamente proporzionali alla rapidità con cui i bookmaker pagano o incassano le giocate.
Ma perché Stanleybet batte cassa? E perché questo miliardo e mezzo di euro lo vuole proprio dallo Stato italiano? Par di capire che il bookmaker inglese ritenga le nostre massime istituzioni responsabili per «danni diretti, perdita di profitti, perdita di opportunità commerciali e danni di immagine maturati nel corso del periodo che va dal 1998 al 2006». Almeno ciò è quanto si legge nella richiesta di risarcimento avanzata dai legali rappresentanti della Stanleybet alla Presidenza del Consiglio dei ministri. A prescindere dall’esito della vertenza, la causa sarà comunque da Guinness (dei primati, la birra non c’entra ndr): si tratta infatti del più grosso risarcimento chiesto da un operatore privato a un governo di uno Stato membro nella storia dell’Unione europea.
«Questa è l’ultima spiaggia - dice John Whittaker, portavoce della Stanleybet -, siamo sempre stati disponibili a trovare una soluzione condivisa con il governo italiano. Invece da 12 anni siamo costretti a combattere per far valere i nostri diritti». Secondo Whittaker l’Italia «non offre agli utenti il beneficio della scelta e della qualità garantito da un mercato delle scommesse sportive realmente aperto. Siamo spiacenti che le circostanze non ci abbiano lasciato altre alternative». La Stanleybet lamenta di essere stata «ripetutamente esclusa dall’accesso al mercato italiano del gioco e costretta ad avviare oltre 2mila azioni legali».
La richiesta di 1.533 milioni di euro viene così motivata da Stanleybet: 887,2 milioni di profitti persi, 29,3 milioni per danni accessori e spese, 362,2 milioni persi per mancate opportunità di sviluppo commerciale (esclusione da nuovi bandi) e 254,3 milioni in danni all’immagine e alla reputazione della società. Conteggi dettagliati, non c’è che dire. Possibilità di incassarli? Poche. Quando? Campa cavallo...
Lunghissima in questi anni la trafila di centri di trasmissioni dati legati a Stanley, sequestrati dalle Forze dell’Ordine e riaperti per ordine dei vari tribunali, sempre in bilico fra applicazioni della normativa italiana e recepimento delle indicazioni a livello comunitario.
L’ultimo aggiornamento della lunghissima battaglia legale risale a gennaio 2010, quando la Corte di cassazione ha passato la palla alla Corte di giustizia europea, a cui è richiesto un «parere pregiudiziale», per stabilire la conformità del bando Bersani al diritto comunitario.
In ballo, gli articoli 43 e 49 del trattato Ue, sulla libertà di stabilimento e circolazione dei servizi. L’interpretazione degli articoli in questione, secondo i giudici della Corte di cassazione, «conserva margini di incertezza che non sono stati risolti dalle pronunce precedenti della corte Ue». Insomma, poche idee ma confuse. «No, una certezza c’è - replicano quelli della Stanleybet -: l’Italia ci tratta come se fossimo dei fuorilegge...». Ma quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.

Anzi a scommettere.

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