Rebellato e Tentori da non dimenticare

Che cos’è mai il «canone», in letteratura? Una gerarchia di valori, e dunque di nomi, costruita con un arbitrio del quale nessuno si dice poi direttamente responsabile ma che emargina sine die le voci divergenti dalla traccia di quel gusto che, appunto, fa «canone». Ripenso a questa obbiettiva ingiustizia di fronte a due libri appena usciti: l’organico delle poesie 1929-2004 di Bino Rebellato «approvate dall’autore»: In nessun posto e da per tutto (Biblioteca Cominiana); e una corposa antologia dei versi di Francesco Tentori: Il segreto degli specchi (GED).
Su Rebellato (Cittadella, 1914-2004) ci aiuta il saggio introduttivo di Marco Munaro, che articola in una ragionata sequenza di otto «movimenti» l’opera di una personalità defilata, che i cultori di poesia apprezzarono anche nel ruolo di editore, per un paio di collane che negli anni ’50-60 accanto ai classici del secolo ospitavano autori nuovi sulle cui doti egli felicemente scommise. Un po’ più nell’ombra si svolse la carriera del poeta, ma nei decenni recenti Rusconi e Scheiwiller ne riproposero l’originalità; mentre Rebellato, oltre a cimentarsi in imprese temerarie come quella di tradurre Folengo nel dialetto veneto, ritornava instancabile sui propri testi, a limare e a correggere. Perciò a volte accadeva che i suoi libri s’incastrassero uno nell’altro, e che versi della giovinezza venissero recuperati in età matura o senile, magari con effetti di cortocircuito. Il postulato era un’idea sublime di Poesia, che Rebellato si sforzò invano di chiarire in termini teoretici ma che, invece, sul campo lo spinse a una macerazione estrema non avara di risultati: «In un profondo spacco/ della mente/ ancora viva/ furiosamente attendono/ non mie/ bellissime parole».
Egual fede nel valore della poesia - strumentale in senso alto, ma non mercantile - ha sorretto la scrittura di Francesco Tentori (Roma, 1924-95), che l’antologia odierna esemplifica largamente, dal 1949 al 1994, nelle sue diciannove raccolte. Aggiungendo al proprio cognome quello materno, Montalto, acquisì meritatissima fama come traduttore dei lirici spagnoli e ispanoamericani: molti davvero ne abbiamo incontrati grazie a lui. Era forse inevitabile che sotto questo lavoro risuonasse più fievole, agli orecchi del pubblico, la sua voce di lirico; un lirico della «quarta generazione», educatosi alla scuola fiorentina di Betocchi e di Luzi, come sempre gli piacque testimoniare. In una lingua cristallina restituiva ogni episodio, ogni immagine nel grembo di un’oscura fatalità, percepita al timone della nostra esperienza.

Sono in pochi a poter vantare sulla pagina una simbologia così nitida, e pochissimi a maneggiare con la stessa destrezza l’endecasillabo nelle sue delicate variazioni: «Neanche stanotte c’è risposta: il cerchio/ del fuoco si consuma poi riarde,/ lo nutri con nuova legna e pensieri/ se è pensiero quello che ti attraversa/ e non guizzi baleni crepitii,/ l’anima della vita fatta brace».

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