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Il regime che condannava sussurrando

Nella Russia di Stalin il controllo e la manipolazione della vita privata dei sudditi raggiunse livelli impensabili. Un saggio di Orlando Figes spiega i trucchi e le bassezze degli informatori. Una mattanza ideologica e politica che cancellò l’identità di 25 milioni di cittadini

Il regime che condannava sussurrando

Sospetto e silenzio si intitola in italiano l’imponente saggio di Orlando Figes (Mondadori, pagg. 645, euro 38, traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana) sulle «vite private nella Russia di Stalin», ma noi continuiamo a preferire il titolo originale dell’edizione inglese uscita due anni fa: The Whisperers, I sussurratori. Perché nulla rende meglio l’idea di un potere occhiuto e temuto, insondabile e imprevedibile, di un sostantivo che evoca una società di sudditi dove si vive e si muore sottovoce, ovvero in apnea, consapevoli che ogni giudizio ti può essere imputato, ogni affermazione ti può condannare, ogni sentimento ti si può ritorcere contro.
Ma to whisper può anche voler dire sparlare, fare la spia, calunniare e infatti Figes racconta non solo e non tanto la realtà di un regime totalitario, quanto la costruzione di una nuova psicologia inumana nella sua essenza, dove i figli denunciano i padri, le mogli i mariti, spiare è glorioso, tradire è santificato e giusto essere condannati ingiustamente... Nessun regime autoritario del passato agì così capillarmente sulle vite private di chi gli stava sotto, nessun regime totalitario novecentesco, né il fascismo né il nazionalsocialismo, manipolò così massicciamente le menti delle masse su cui esercitava il proprio dominio. Il comunismo al potere in Urss fu il più sofisticato e il più spregevole esempio di schiavitù intellettuale imposta a tal punto da trasformarsi in habitus mentale, in modo di vivere, in modello comportamentale.
In Sospetto e silenzio il lettore troverà le cifre e le vicende di questa mattanza ideologica e politica, la realtà dei gulag e dei processi-farsa e insomma l’impianto storico-cronachistico in cui essa si incarna, ma a noi interessa di più dar conto dell’altro aspetto, quello relativo alle mentalità, alla orwelliana edificazione di un bis-pensiero e di una neo-lingua, di una «nuova umanità» di segno rovesciato, dove di umano alla fine non c’è più niente e di nuovo l’eterna pratica del terrore. Nelle seicento e passa pagine di un saggio denso di note, memorie, testimonianze dirette, fonti d’archivio, materiale inedito, Figes illumina tutto ciò in maniera rapsodica. Qui cercheremo di metterlo in evidenza in forma tematica, per meglio facilitarne la comprensione e la lettura.
LA PERSONALITÀ COLLETTIVA Alla base del comunismo c’è questo principio, il principio del servizio al partito e alla sua causa, il prototipo di un essere umano nuovo, una «personalità collettiva», appunto, il cui compito è di «far esplodere il guscio delle vite private». Come dirà Nadezda Krupskaja, la moglie di Lenin, «distinguere fra vita privata e vita pubblica, prima o poi porterà al tradimento del comunismo». Così, la sfera personale viene ad essere assoggettata alla supervisione pubblica, così, ogni spazio privato al di fuori del controllo dello Stato è di per sé un brodo di coltura per contro-rivoluzionari, e quindi va cercato, scoperto ed eliminato. Come scriverà Majakovskij, «torcete il collo ai canarini/ perché da essi non venga sopraffatto il comunismo», dove i canarini stanno per la domesticità «piccolo-borghese»...
IL PARTITO E IL DISSENSO La «moralità» comunista era un atto di fede, ovvero la conformità agli interessi del partito. Fede era sinonimo di coscienza pulita e una questione pubblica, non privata. Il giudizio collettivo del partito doveva essere accettato come la «giustizia». Epurazioni e processi erano una sorta di inquisizione morale dell’anima dell’imputato per smascherare la verità delle sue convinzioni. Questo spiega anche l’importanza attribuita alle confessioni, considerate «la rivelazione dell’io segreto». Tutto ciò significava che se un membro del partito veniva accusato, doveva pentirsi, inginocchiarsi davanti al partito, accettare la condanna. Difendersi non era dunque un atto dovuto e/o un diritto, bensì il macchiarsi di un altro reato: dissenso dalla volontà del partito...
LA FINZIONE E LA VERITÀ Si poteva essere comunisti esemplari, ma avere una tara nel proprio passato: un’origine aristocratica o contadina, una parentela sospetta... Ciò portava a un desiderio di riscatto da un lato, e quindi di maggior dedizione alla causa, di paura, vergogna, senso d’inferiorità, odio segreto, perfino, dall’altro, eternamente in attesa della punizione che poteva arrivare... In questa duplicità, dove l’io interiore veniva sacrificato alla dimensione pubblica, si arrivava a «sentire di essere la persona che si fingeva di essere».
VITA DA LUPI Era la diretta conseguenza della finzione-realtà precedente. La negazione-rinnegamento delle proprie origini, l’assunzione spesso di una nuova identità voleva dire stare sempre in guardia, non tradirsi, non fare passi falsi, avere sempre paura. «Quando vivi con i lupi impara a vivere come un lupo».
LA SORVEGLIANZA COLLETTIVA La kommunalka, ovvero l’appartamento in coabitazione, faceva sì che ognuno degli inquilini sapesse tutto degli altri: orari, abitudini, amicizie, confidenze (le pareti erano sottili, spesso non arrivavano al soffitto...). Poiché niente in quegli spazi poteva essere considerato privato, si entrava nelle stanze altrui durante un litigio, o perché c’era troppo rumore. L’atmosfera era mefitica, la tensione continua, la denuncia un’arma...
L’UTOPIA E LA REALTÀ Come scriverà Nadezda Mandel’stam, «un uomo, il quale sapesse che con i mattoni del futuro non si può costruire il presente, si rassegnava in anticipo alla propria inevitabile fine e non poteva certo giurare di non finire fucilato». Ecco perché non ci si poteva permettere di non credere nella promessa di una vita migliore e per far questo era necessario un atto consapevole di fede politica: accettare, ancora e sempre, il partito come fonte di verità. Ciò portava a una dissociazione perenne, la fallimentare pratica quotidiana che si urtava con la grande strategia, di per sé infallibile.
LA TEORIA DEL BOA Perché non cercare di scappare, perché attendere rassegnati l’arresto e spesso quindi la morte? La passività fu uno degli aspetti più straordinari del terrore staliniano. C’erano molti modi per evitarlo, nota Figes: «Quelli più semplici consistevano nell’abbandonare le città e assumere una nuova identità acquistando falsi documenti al mercato nero, dal momento che la Nkvd non riusciva a rintracciare le persone trasferite»... E invece tutti aspettavano, una borsa accanto al letto, di essere risucchiati... Era una forma di ipnosi dal potere, secondo la testimonianza dello sceneggiatore Valerj Frid: «Eravamo tutti come conigli che riconoscono il diritto del boa di inghiottirli. Entravamo nella sua bocca con la sensazione di andare incontro al proprio destino».
NON CI SI NASCONDE AL PARTITO Era la variante del «diritto del boa» di cui sopra. La convinzione della propria innocenza immobilizzava molti bolscevichi. Si crogiolavano nell’idea che venissero arrestati solo i colpevoli e che la loro innocenza li avrebbe, appunto, protetti... «Io, comunista, dovrei nascondermi al partito» dicevano a mo’ di spiegazione-giustificazione. Arrestati, pur sapendo di essere innocenti, accettavano di dichiararsi colpevoli se era questo che il partito voleva da loro. Non lo avrebbero deluso.
I SUSSURRATORI La fine di una comunicazione autentica, porta a una società della diffidenza, dove la dissimulazione è costante e esteriormente ci si uniforma al codice di comportamento richiesto. Ma proprio perché tutti indossano una maschera, si deve anche accettare l’ipotesi che essa sia appunto tale e nasconda spie e traditori... È su questo presupposto che denunce e rapporti su «complotti» e «poteri occulti» diventavano credibili: non solo per il grande pubblico, ma anche fra colleghi, amici, vicini... Come si legge in un diario dell’epoca rimasto inedito: «Gli unici a esprimere le proprie opinioni in pubblico sono gli ubriachi... L’enorme massa parla sottovoce, altri bisbigliano fra sé in solitudine, molti hanno imparato a mantenere il silenzio assoluto, come fossero in una tomba...».
I NEMICI DEL POPOLO La prova che esistessero era il fatto che degli innocenti finissero dentro! La dialettica marxista e/o la propaganda di partito facevano sì che la vittima cercasse di sopravvivere alle punizioni continuando a credere in Stalin e a pensare che i «nemici del popolo» ingannassero anche lui...
DUE RUSSIE, ANZI TRE «Adesso quelli che sono stati arrestati torneranno, e due Russie si guarderanno negli occhi: quella che ha mandato questa gente nei campi e quella che è tornata» scrisse Anna Achamatova anticipando gli anni del «disgelo», quando i prigionieri tornavano dai gulag e si trovavano faccia a faccia con i colleghi, i vicini, gli amici da cui erano stati denunciati.

Ma c’era anche una terza Russia, quella dei rimasti a casa, sottoposta a tensioni logoranti, all’orrore d’aver dovuto rinnegare ogni legame familiare, alla paura di aver avuto un parente finito in carcere e quindi sentito come una minaccia. Tre Russie che si sentivano reciprocamente rifiutate e estranee le une alle altre.
Questo racconta Sospetto e silenzio: la distruzione psicologica di una nazione.

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