Repubblica in nome dell’ipocrisia

Puntuali come la scadenza di una cambiale, sono arrivate ieri le lacrime di coccodrillo di Repubblica. Il quotidiano che solo due giorni prima aveva dato come principale notizia la lettera della signora Berlusconi, dando a una vicenda familiare le dimensioni di un caso politico mondiale, ieri ha pubblicato un editoriale di Adriano Sofri intitolato «Quando salta il confine tra pubblico e privato».
Intendiamoci: il contenuto dell’articolo di Sofri non è chiarissimo. Del resto l’autore è troppo colto, raffinato e intelligente perché noi si riesca a comprenderlo. Tuttavia, ci sono alcune frasi che quantomeno buttano lì il sospetto che Sofri ritenga disdicevole questa commistione tra pubblico e privato. Eccone qualcuna, di quelle frasi: «Non si sa più bene che cosa sia la vita privata»; «In pezzi è andata anche la discrezione e la confidenza, sostituite dagli avvocati, dai reality televisivi...»; «È rovinosamente crollata la frontiera fra pubblico e privato, nello spettacolo universale...».
E di chi è la colpa di tutto questo? Già il giorno prima il quotidiano fondato da Scalfari aveva messo (pagina 7) le mani avanti: «Nell’Italia berlusconizzata della post-politica i panni sporchi si lavano in piazza», «È saltata la distinzione tra sfera pubblica e privata», naturalmente «con la dovuta complicità dei media», e questa distruzione della privacy «saranno ormai dodici-tredici anni che Berlusconi l’ha messa in pratica».
Insomma, che Italia è questa dove si mettono in piazza i problemi tra una moglie e un marito? E se ne fa perfino un uso politico? Ma è chiaro: è l’Italia di Berlusconi.
A noi pareva invece che era stata Repubblica, a strumentalizzare una vicenda privata. Certo: il suo direttore, Ezio Mauro, ha spiegato con eleganza di aver solo pubblicato una lettera che ha ricevuto. Mauro glissa però sul «come» l’ha pubblicata. E non siamo noi - dipendenti della famiglia Berlusconi - i primi a rilevare l’omissione. Già giovedì il Riformista, quotidiano di sinistra (moderata quanto si vuole, ma sinistra), faceva notare che «c’è, enorme, un “caso Repubblica”», e c’è non tanto perché ha pubblicato quella lettera, ma per il «come» l’ha pubblicata. Spiega il Riformista: «Titolo e alcune righe in apertura di prima, e poi un’intera pagina, la quarta, a caratteri grossi grossi, tipo quelli di una pubblicità a pagamento di un formaggino o della Toyota Corolla». Poi sette pagine intere il giorno dopo. Una cosa del genere, sottolinea ancora il giornale diretto da Paolo Franchi, «non la si era mai fatta». Mai. Neanche i giornali o le Tv berlusconiane avevano mai compiuto un’operazione simile. Parole, ripeto, non nostre ma del Riformista.
Sia chiaro. Non critichiamo le scelte del giornale, che aveva in mano uno scoop e se l’è giocato come gli suggerivano le proprie finalità politiche e commerciali. Quel che va smascherata è l’ipocrisia di un quotidiano che da sempre si presenta come voce di un’Italia migliore, onesta, di un’Italia che rifiuta la lotta politica fatta non sui contenuti ma sui colpi bassi, di un’Italia che non sbircia dal buco della serratura e si schifa per il Grande Fratello. L’articolo di Sofri di ieri non è il segno di un pentimento, ma il tentativo di rifarsi una verginità per potere tornare a predicare contro un modo di essere che, invece, ha copiato nella sua versione peggiore. Prova ne sia che nella redazione di Repubblica, come risulta da indiscrezioni pubblicate ieri sempre sul Riformista, i disagi per quest’ultima vicenda sono parecchi.
Ma sì, ha ragione il Riformista: più che un caso-Berlusconi, è scoppiato un caso-Repubblica. Il caso della caduta della foglia di fico di un giornale che conciona contro la Tv delle veline e poi riempie il suo sito di tette e di chiappe (vedere la sezione «trash» dei calendari; o, per stare alla home page di ieri, il link «Scene di sesso vero nel film con Sienna Miller? Guarda la sequenza»).
Volete un altro esempio? Pensate a questo: Repubblica si fa da sempre paladino della «questione legalità», che conduce con grandi inchieste. Spesso ad personam, ci pare: come risultò per l’accanimento contro Berlusconi. Ma si sa, noi su Berlusconi siamo di parte. E allora citiamo un altro esempio: da tempo, Repubblica sta conducendo una battaglia per dimostrare che Marco Tronchetti Provera è colpevole delle intercettazioni illegali compiute da alcuni dipendenti Telecom. Noi non sappiamo se Tronchetti Provera sia colpevole o innocente. Ma come lo colpevolizza Repubblica? Alcuni giorni fa ha messo in prima pagina, con grande risalto, la notizia secondo la quale anche i magistrati Colombo e D’Ambrosio erano spiati: non era vero (si trattava di due casi di omonimia) ma il giorno dopo non abbiamo letto una riga di precisazione. E dal numero di ieri segnaliamo questa perla: a pagina 29 c’era un pezzo di cronaca in cui si raccontava che uno degli arrestati per i controlli illegali al Corriere della Sera ha sostenuto che «nessun altro ufficio esterno o superiore al loro era a conoscenza dell’operazione che ha portato, alla fine del 2004, a spiare i computer del vicedirettore ad personam Massimo Mucchetti e all’ex amministratore delegato Rcs Vittorio Colao». Così dunque ha detto l’arrestato: nessun superiore era a conoscenza. Eppure il titolo era «Telecom, il baby-hacker confessa: dall’alto l’ordine di spiare Rcs».
Il caso-Repubblica non è il caso di un giornale fazioso: se così fosse, non avremmo nulla da obiettare.

È il caso di un giornale - ma, per estensione, potremmo dire di tutto un mondo della sinistra - che si autoproclama «antropologicamente superiore» (parole di Scalfari) e che invece ci ricorda tanto i sepolcri imbiancati. I moralisti. E, come scrisse una volta Montanelli, «li conosciamo, i moralisti: mettetene a letto uno fra una Lucrezia e una Taide: vedrete da che parte si volterà».

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