Non dev’essere stata una gran sorpresa, per Paolo Maurizio Ferrari, ritrovarsi ieri mattina fra le mura di una cella. Dei suoi sessantasei anni portati non benissimo, quasi la metà li ha passati dietro le sbarre. È uno dei pochissimi brigatisti a non essersi mai pentito né dissociato. E ieri mattina è stato arrestato con l’accusa di associazione per delinquere per aver partecipato agli incidenti avvenuti lo scorso 3 luglio a Chiomonte, in Val di Susa, contro la Tav Torino-Lione. Negli scontri, va ricordato, rimasero feriti duecento agenti delle forze dell’ordine che presidiavano il cantiere.
E tuttavia è difficile non provare per Ferrari prima di tutto un sentimento di umana pietà. Una foto ce lo restituisce esile, gracile, la barba e i pochi capelli bianchissimi, mentre si arrampica su una scala per manifestare la sua protesta. In un vecchio film americano degli anni Settanta, Vivere alla grande, tre anziani pensionati si stufano di passare le giornate ai giardinetti e decidono di rapinare una banca e darsi alla bella vita. Nel mito americano il fuorilegge può essere un eroe, e fra le banche e i rapinatori il cinema western ci ha abituati a scegliere i rapinatori. Ma l’ultrasessantenne Ferrari che si ostina a fare il rivoluzionario in quell’estremo lembo geografico e ideologico che è la Val di Susa somiglia piuttosto al famoso ultimo giapponese che rincorre la morte eroica quando ormai l’eroismo ha lasciato il posto al più pratico e indolore consumismo. Davvero non c’è niente di più triste di un «rivoluzionario» senza rivoluzione.
Non che negli anni Settanta ci fosse la rivoluzione in Italia: ma almeno c’era il «movimento», e una sterminata zona grigia fra il movimento e i nascenti gruppi armati, e anche (è bene non dimenticarlo) un comune «album di famiglia», secondo la felice espressione di Rossana Rossanda, che univa le generazioni e le sigle della sinistra al di là delle divergenze, anche molto aspre, del momento. Di quell’album restano davvero poche pagine, e sgualcite: l’Italia ha archiviato la pratica, e naturalmente l’ha fatto all’italiana, in un tripudio di dissociazioni e pentimenti, interviste e autobiografie che hanno portato i maggiori terroristi non soltanto fuori dal carcere, ma spesso anche nei salotti. Delle vittime, invece, raramente si parla.
Ferrari - che al maxiprocesso al nucleo storico delle Br, che si svolse a Torino nel 1978 durante i giorni del sequestro Moro, conquistò una certa popolarità come portavoce del gruppo, leggendone i comunicati durante le udienze - non è l’unico rivoluzionario d’antan nella retata che ieri ha portato in carcere 26 persone fra Torino, la Val di Susa e molte altre città d’Italia, da Asti a Palermo, da Roma a Bergamo. Come in Vivere alla grande, anche in questa storia i vecchietti sono (almeno) tre. Con Ferrari (66 anni) sono finiti in gabbia Guido Fissore, consigliere comunale di Villarfioccardo (67 anni), e Antonio Ginetti, ex militante di Prima linea (60 anni).
Ginetti, barba e capelli bianchi che lo fanno somigliare a Mago Merlino più che a Marx, milita oggi nel collettivo antagonista «Liberate gli orsi» di Pistoia. Negli anni Ottanta faceva parte della «Brigata Luca Mantini» di Prima linea: il miglioramento è evidente, ma non è bastato ad evitargli l’arresto.
Altrettanto e forse più pittoresco è il terzo militante emerito della rivoluzione valsusina: Guido Fissore. A dicembre aveva accompagnato al cantiere della Tav un pullman di studenti bergamaschi in gita scolastica, per «far capire ai ragazzi che cosa succede»: la Digos li aveva fermati tutti e rispediti a valle. Ora è stato identificato mentre il 27 giugno scorso, alla Maddalena di Chiomonte, il volto coperto da un foulard, «colpiva ripetutamente con una stampella, utilizzata come bastone, due agenti della polizia di Stato». Tra gli episodi contestati al consigliere comunale anche il lancio di secchi di vernice rossa, letame, pietre, petardi, bombe carta, estintori «e altri oggetti contundenti». Insomma, un vero demonio.
«Il terrorismo non ha niente a che vedere con i fatti pur gravi di cui stiamo parlando», s’è affrettato a precisare il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli. E se lo dice lui, c’è da crederci.
Anche Caselli è un veterano: le prime indagini sul terrorismo in Italia le condusse da giudice istruttore, proprio a Torino, insieme con Maurizio Laudi, all’inizio degli anni Settanta. È proprio vero che siamo un Paese per vecchi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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