La rete sciita che può salvare il Medio Oriente

Massimo Introvigne

Ahmadinejad in Iran e Nasrallah a Beirut stanno cercando di rovesciare il tradizionale rapporto di forza nel mondo islamico, che vede gli sciiti (15%) subordinati ai sunniti (80%, mentre il rimanente 5% è costituito da denominazioni «minori»). Il piano preoccupa le monarchie tradizionali sunnite - Giordania, Marocco, Arabia Saudita - e perfino i sunniti di Al Qaida: se Bin Laden dialoga discretamente con Teheran, dal numero due Al Zawahiri ai comandanti di seconda generazione in Arabia Saudita, Pakistan e Irak è arrivata via internet una pioggia di critiche agli errori strategici e dottrinali di Hezbollah (e implicitamente di chi gli detta la linea, l’Iran).
Sfruttare la rivalità fra sciiti e sunniti può essere una strategia per l’Occidente, ma rischia di destabilizzare le fragilissime democrazie in Irak e in Libano, che per sopravvivere hanno bisogno che le due branche dell’islam convivano e collaborino. Un illustre studioso della Shia, l’iraniano professore in America Vali Nasr, propone in un saggio su Foreign Affairs che sta facendo il giro della diplomazia mondiale (Vaticano compreso) il dialogo diretto con l’Iran e gli hezbollah come unica strada per evitare la guerra atomica, inevitabile perché l’Iran in un modo o nell’altro si doterà della bomba. La tesi ha il difetto di ignorare la natura millenarista e apocalittica dell’ideologia di Ahmadinejad e di Nasrallah: con chi aspetta la fine del mondo e lo sterminio finale degli ebrei non si può dialogare.
C’è un’altra via. Le critiche durissime che le massime autorità religiose sciite libanesi stanno rivolgendo in questi giorni a Nasrallah, accusandolo di avventurismo e dichiarando che non rappresenta affatto tutti gli sciiti del Libano, costituiscono una novità storica che non va lasciata cadere. Tradizionalmente la Shia ha predicato l’obbedienza alle autorità costituite, chiunque fossero, e proprio nel mondo sciita è nato intorno alla Prima guerra mondiale il movimento moderato detto «costituzionalista», uno dei primi tentativi di conciliare pensiero islamico e democrazia moderna. Certo, tutto è cambiato con Khomeini e la rivoluzione iraniana del 1979. Ma Khomeini, che ha sostituito il costituzionalismo con la teocrazia del «governo del giurista islamico» non ha mai rappresentato tutto il mondo sciita, e non mancano i suoi critici nello stesso Iran.
Il rappresentante più alto in grado al mondo della gerarchia degli sciiti (che, a differenza dei sunniti, hanno un «clero») è l’ayatollah Sistani di Najaf, in Irak, cauto ma intelligente protagonista del dialogo con l’Occidente e gli Stati Uniti. L’Azerbaijan, altro Stato a maggioranza sciita che naviga su un mare di petrolio, ha una gerarchia religiosa moderata, cui fa riferimento anche la minoranza sciita nella cristiana Georgia. Gli sciiti dell’Arabia Saudita, a lungo discriminati, sono ora in dialogo con il re Abdallah, che ha ottenuto successi significativi nel tentativo di sottrarli all’influenza iraniana. Ora anche in Libano la gerarchia sciita attacca gli Hezbollah.
Non tutti gli sciiti sono terroristi.

Dialogare con la Shia moderata e insistere sul fatto che la posizione sciita tradizionale è diversa da quella di Ahmadinejad e Nasrallah può essere una carta importante per isolare i terroristi e chi li sostiene. È un peccato che questi sviluppi sembrino sfuggire completamente a D’Alema, che continua a considerare come legittimi rappresentanti del mondo sciita solo gli Hezbollah e il governo di Teheran.

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