Verona è perfetta. La sinistra aveva bisogno di un luogo simbolo del fascismo reincarnato. Verona città dellodio, dove lamore da sempre viene sconfitto dalla violenza di Montecchi e Capuleti. Verona leghista, quindi rozza, razzista, dove allo stadio volano gli ululati sulla pelle nera. Verona con le bande neonazi in bomber e dove si muore per una sigaretta. Verona è perfetta per lanciare la campagna di primavera contro il Cavaliere oscuro e le sue orde barbariche. La cronaca di un massacro, vigliacco e bastardo, diventa così lo spunto politico per raccontare lItalia che verrà. Veltroni parla di un clima «culturale e politico nel quale si vanno affermando principi di odio e intolleranza verso i più deboli». LUnità, domenica, lancia lallarme sul profondo Nord. E titola: Verona, nessuno vede i picchiatori «italiani». Italiani, appunto. Come se fosse importante. Senza capire che la battaglia sulla sicurezza non distingue tra bianchi e neri, tra stranieri e nostrani. Gli assassini fanno paura, sempre. E andrebbero puniti, sempre. Criminologi e statistiche dicono poi che un clandestino è più a rischio criminalità. Ma questo valeva anche nella Chicago degli anni 30. Anche lì quelli con il mitra erano spesso italiani. E clandestini. Spazziamo ogni dubbio. Lo faccia la Lega. Lo facciano i veronesi. I killer delle bande sono come i clandestini che stuprano e massacrano. Il problema non è la mano. Il problema è che uccide.
LUnità accusa Verona di omertà. Il silenzio ideologico e fiancheggiatore che copre gli assassini. Nessuno svela. Chi sa parli. Salvo poi scrivere: «La provenienza dei cinque aggressori è certa, perché parlavano il dialetto locale. Letà è al massimo 25 anni, due di loro indossavano jeans e un giubbotto bomber, uno aveva un cappellino in testa». Insomma, manca solo la foto. È il massimo che si può chiedere ai testimoni alle due di notte, in una città diversa, che non ha la movida di Barcellona. Verona ha detto tutto ciò che sapeva. Ma non basta a salvarla dal «teorema». Le bande neofasciste crescono in una cultura leghista. E tutto questo serve a rilanciare il pericolo fascista urbi et orbi. Alemanno a Roma dice: la festa del cinema sia un po più italiana. E il Times scrive: il sindaco ex fascista mette sulla lista nera le star hollywoodiane come Leonardo Di Caprio e Nicole Kidman. Tutto fa brodo: anche il maccartismo.
Basta. Cambiate musica. La cultura di sinistra deve avere una strana malattia, una sindrome che rende gli uomini più cocciuti e ripetitivi del cane di Pavlov. Perdono le elezioni? Fascisti. Un saggio di Gianpaolo Pansa sulla Resistenza? Tradimento. Una riflessione sullarticolo 18? Reazionari. Un Ferrara sullaborto? Maschilista. È un giochino così semplice che ormai mette tristezza. Non cè nulla da fare. È un riflesso condizionato, un abito mentale che resiste a tutte le stagioni. Puoi cambiare nome ai partiti, cercare nuove coalizioni, rinnegare falce e martello, aprire discussioni sulloccupazione sovietica dellUngheria, ma appena vedi losso alzi la zampetta e tiri fuori la lingua. Fregati. Pavlov colpisce ancora.
Cè un muro che a sinistra non è mai caduto. È la vecchia «diversità antropologica» della destra. Chi vota Berlusconi, Bossi o Alemanno non ha semplicemente unopinione diversa dalla tua. È uno con cui non si può andare a cena perché è un cafone. Uno che non conosce Bulgakov e alla domanda: chi è Pirandello? Risponde: un pittore. Se è ricco è arricchito. Se è colto si è venduto. Se scrive è un servo. Se fa il commerciante è un evasore. Se vive in periferia è un naziskin. Se è dei Parioli è un palazzinaro. Ed è comunque, ora e sempre, un fascista.
La democrazia li manda in bestia. Ne parlano spesso, ma ogni volta che il popolo non vota dalla parte «giusta» diventa plebe. Ergo: i pavloviani cominciano a vedere camicie nere ovunque. Ormai sono rimasti solo loro ad avere nostalgia del saluto romano. Se non percepiscono qualche braccio alzato vanno in crisi didentità. Cè da capirli. Tutte le loro roccheforti culturali, i loro miti, sono sprofondati sotto le macerie del Novecento. Da Mao a Fidel Castro, dal 68 alla P38.
Vittorio Macioce
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