Roma - E le Province? Che fine ha fatto il taglio? È forse «rimasto a metà»? Troppe prudenze, troppa timidezza: la questione invece «va messa in calendario con decisione, non può essere lasciata a mezz’aria». Da Bologna dov’è in visita ufficiale, Giorgio Napolitano non sembra particolarmente soddisfatto dell’incertezza dimostrata da Palazzo Chigi. Dopo «gli accenni contenuti nel primo decreto del governo Monti», c’è stato infatti un tira e molla inconcludente. «Si è andati avanti - spiega il capo dello Stato - poi si è annunciato, poi si è presa una decisione parziale. Adesso occorre fare un punto e scegliere una strada».
Non è forse la prima critica al Professore, ma certo le assomiglia molto. In questa fase Napolitano, oltre che da Lord Protettore, vuole fare da pungolo e da stimolo dell’esecutivo. C’è un rallentamento del piano di riduzione dei costi della politica? E lui lo segnala. «C’è molto conservatorismo e molta continuità sul problema degli assetti istituzionali. Ci sono questioni che si sono accumulate nel tempo e che ora affrontiamo con parecchio ritardo». Le Province, appunto. «Una strada avremmo potuto sceglierla 42 anni fa, quando per la prima volta vennero eletti i consiglio regionali». Bisognava disboscare allora: «Quello era il momento di rivedere le altre catene istituzionali create in precedenza». Non si fece all’epoca. Non si è fatto nemmeno un mese fa. Nel decreto Salva Italia c’erano solo «accenni», ora «bisogna andare bene a fondo e risolvere con razionalità e avendo una visione d’insieme».
Secondo punto, il federalismo fiscale. «Una legge - spiega il capo dello Stato - su cui è lavorato e discusso molto e che non è più un’opzione, ma un dovere di attuazione». Insomma, una riforma già fatta, a portata di mano, solo da applicare. Un’altra riforma, invece, quella del Parlamento, appare più lontana. Napolitano è pessimista. Siamo ancora prigionieri del bicameralismo perfetto, si lamenta, «e non sarà facile venirne fuori nemmeno in questo momento nonostante le sollecitazioni».
Conclude con un appello a stringere la cinta: «I sacrifici sono necessari per uscire dal tunnel e ridurre il peso del debito pubblico, che ogni anno ci costa 70 miliardi solo di interessi. Il problema riguarda tutti».
Ma evidentemente non le Province, che continuano a fare muro. Una protesta trasversale. «Oggi giornata di mobilitazione - annuncia il presidente dell’Upi, Giuseppe Castiglione, Pdl - in 150 anni i nostri enti hanno assolto una funzione storica. Siamo per la riduzione e l’accorpamento, ma vogliamo anche poteri certi». Particolarmente forti le proteste a Torino: 300 i sindaci che hanno scritto una petizione a Monti chiedendo di salvare il capoluogo. Tra questi, Piero Fassino: «Il riassetto deve essere equilibrato. Qui da noi ci sono ottomila comuni troppo piccoli per essere in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini». Per il presidente del Piemonte, il leghista Roberto Cota «ci sono tante Province inutili ma quella di Torino è necessaria».
E mentre la Cgil parla di «tagli ingiustificati», il governatore lombardo Roberto Formigoni prepara un ricorso alla Corte Costituzionale. Nicola Zingaretti propone «una battaglia di innovazione non di conservazione».
Però, aggiunge: «Siamo diventati il capo espiatorio degli sprechi. Ma nessuno ricorda lo studio della Bocconi, secondo il quale l’abolizione porterebbe un risparmio dell’1,3 per cento nell’immediato e un probabile aumento della spesa nel lungo periodo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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