Ma le riforme che funzionano dividono sempre

È piuttosto singolare invocare le riforme e poi attendersi che tutti siano lì ad applaudire. Il governo viene sovente accusato, e con qualche ragione, di non aver fatto le grandi leggi che servono all’Italia. E, quando mette mano alla riforma dell’Università, ci si lamenta delle proteste che essa sta generando. È come quelli che a parole chiedono più «meritocrazia» (altro mantra del salotto fighetto) e poi si lamentano che proprio grazie ad essa quelli che non meritano faranno un passo indietro. Riforme, tagli, criteri meritocratici modificano l’esistente: sono dolorosi.

In genere le società democratiche si attrezzano per rivoluzionare le proprie regole di convivenza quando proprio non possono farne a meno. Conservare l’esistente è comodo per un semplice motivo: non si rimescolano le carte, non si ridiscutono le comodità e gli assetti di potere rimangono intatti. Coloro che hanno maggiore beneficio dallo status quo in genere sono proprio coloro che lo hanno determinato. Pensate forse che i professori universitari abbiano voglia di rendere le proprie carriere più incerte? Pensate, per cambiare registro, che i politici siano lì in prima fila a sforbiciare le proprie prerogative? Ma a chi la raccontiamo questa barzelletta? Le riforme sono un cazzotto in faccia. Modificano la vita di un Paese: non sono aggiustamenti in corso. Non sono il «democristianismo» del «tutto si aggiusta». La riforma dell’Università proprio perché incide nella carne viva del consolidato modo di fare, genera reazioni, proteste. Non si può certo qualificare una riforma come positiva per il solo fatto di creare scompiglio, ma non si può certo bocciarla per il solo fatto che essa faccia il proprio mestiere e cioè rompa gli equilibri e generi proteste.
Una seconda considerazione riguarda invece la discussione che una riforma deve provocare.

È evidente che la modifica delle nostre abitudini deve essere non solo ben pensata, ma anche ben raccontata. Ma il dialogo con gli interessati ad un certo punto deve finire. Le riforme le vota il Parlamento, che a sua volta rappresenta tutti gli italiani e non solo una parte di essi. Si dice che gli studenti non siano stati sufficientemente ascoltati. Ieri il presidente della Repubblica ne ha incontrati una decina. Ma anche qui non prendiamoci per i fondelli. Il fatto che le leggi, a maggior ragione quelle di riforma, si discutano in Parlamento e non in piazza è la conquista stessa della democrazia. I dieci studenti che ieri sono saliti al Quirinale possono avere le ragioni più belle del mondo, ma purtroppo per loro in una democrazia le loro opinioni hanno un valore relativo rispetto a quelle che si formano con il voto in Parlamento. Certo ci sarebbe una terza via. Quella di lasciar decidere le regole generali agli interessati delle stesse. Un tentativo che prese corpo con un certo insuccesso con il corporativismo fascista.

Una terza ipocrisia del riformismo à la carte è quella che vorrebbe possibili le riforme solo con nuove risorse. Quante volte avete sentito dire: non si può riformare l’Università a costo zero. In un momento in cui non c’è il becco di un quattrino, questo è un tentativo mascherato per bloccare tutto. Anzi, oggi le riforme sono necessarie esattamente per il motivo opposto: utilizzare al meglio le ingenti risorse pubbliche che i contribuenti forniscono allo Stato, con la prospettiva di pretendere sempre meno dalle tasche dei cittadini. Purtroppo l’ultima grande stagione di riformismo, quella del consociativismo degli anni ’70, ha inculcato questo pericoloso germe.

In quegli anni è stato comprato il consenso dell’opposizione con leggi costosissime e il cui conto è appunto pagato dalle nuove generazioni. Quando gli studenti manifestano contro la riforma dell’Università lamentandosi «del futuro che gli è stato rubato» conviene che guardino a quegli anni e non già alla buona (anche se timida) riforma Gelmini.

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