La rivincita di Contrada I giudici ci ripensano: «Il processo è da rifare»

«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». Questo è capitato al superpoliziotto Bruno Contrada. Un giorno s’è svegliato e s’è trovato imprigionato nelle pagine del Processo di Kafka. Arrestato e condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa senza uno straccio di prova e senza un riscontro, uno solo, alle valanghe di menzogne (documentate) di 14 pentiti. Assassini di bambini, strangolatori, stragisti, infami, quaquaraquà di Cosa nostra. Personaggi inqualificabili che gli hanno strappato la vita e la divisa, complice la miopia di giudici che preferirono dar credito a loro piuttosto che alle verità di centinaia fra questori, prefetti, ufficiali dell’Arma, tutti in fila al processo per testimoniare l’onestà di un uomo che avrebbe preferito una pistolettata in faccia alla gogna infame cui lo Stato (di cui era fedele servitore) l’ha sottoposto.
E ora che la Corte d’appello di Caltanissetta ha deciso di ammettere la revisione del processo nei suoi confronti, si compie il detto che vuole che la storia si ripeta la prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Dopo averne distrutto la carriera e la reputazione, dopo averlo tenuto in carcerazione preventiva 31 mesi e 7 giorni, dopo 19 anni di istruttorie, dibattimenti, interrogatori, requisitorie e arringhe, dopo averlo tenuto dietro le sbarre militari pure a un passo dal trapasso, i magistrati si sono accorti che la sentenza definitiva di condanna in Cassazione potrebbe essere sbagliata.
Sarebbe potuta arrivare prima, questa decisione. Cinque, 10, 15 anni fa. Quando non si trovavano riscontri alle dichiarazioni dei collaboranti, che riferivano confidenze de relato o di capimafia finiti in terra a ingrassare i vermi e, dunque, indimostrabili. Quando, ancora i pentiti, venivano denunciati perché sorpresi ad accordarsi tra loro. Quando diventava una prova a carico pure una medium in contatto con lo spirito di Falcone preoccupato che Contrada ammazzasse Borsellino. Quando persino i carabinieri giuravano di averlo visto tra le macerie fumanti di via D’Amelio, mentre – in realtà – in quel momento era in barca, al largo di Mondello, con undici persone. I giudici hanno preferito accontentarsi della formula della «convergenza del molteplice» (una bugia ripetuta da più persone diventa una verità) senza preoccuparsi troppo di trovare prove granitiche. Eppure, una domanda semplice semplice avrebbero potuto farsela: come e perché avrebbe aiutato la mafia, Contrada? Facendo scappare i latitanti? Non è stato dimostrato. Passando informazioni riservate alle cosche? Idem come sopra. Collaborando al mercato della droga? Macché. Non una lira fuori posto gli hanno trovato. Per i giudici, il più bravo investigatore antimafia sarebbe passato al soldo del Nemico senza motivo.
L’obiettivo, in realtà, era diverso: la condanna di Contrada, così come quella del giudice Corrado Carnevale, doveva servire a quadrare il cerchio con la sentenza del processo per mafia ad Andreotti, e destinare alla damnatio memoriae lo sbirro, il giudice e il politico corrotti col Demonio mafioso. E fa male pensare che tanti avvoltoi, anche all’interno della stessa polizia, si siano avventati sul corpo straziato di Contrada per farne scempio per rancori personali, o opportunità di carriera. Che tanti bravi investigatori non abbiano avuto il coraggio di andare contro l’equazione «Contrada=mafioso» e che addirittura un giudice come Antonino Caponnetto abbia detto il falso (come è stato poi dimostrato) pur di infangare Contrada.
L’8 novembre, lo sbirro «mascariato», vecchio e malato, sarà in aula per riprendersi l’onore e la reputazione, assistito dal legale Giuseppe Lipera (l’avvocato Pietro Milio, invece, non ce l’ha fatta), e chiederà ai giudici di sapere perché uno dei suoi accusatori, Vincenzo Scarantino, il finto pentito della strage Borsellino, a cui troppi inquirenti hanno creduto, lo calunniò senza che la Procura lo mettesse sott’inchiesta.

Perché le false accuse di Scarantino nei suoi confronti non sono finite nel fascicolo del pm, come prevede la legge, ma nell’ultimo libro del pm che lo ha portato alla sbarra: Antonino Ingroia. Un libro dal titolo che è tutto un programma per una storia che non ha vie d’uscita: Nel labirinto degli Dei.

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