Con «Roadies» il rock and roll è soporifero

Agli appassionati di rock and roll il nome di Cameron Crowe mette davvero i brividi. Da regista ha diretto due tra i film più sonici degli ultimi vent'anni, Almost Famous e Vanilla Sky, le cui soundtrack resistono tra quei dischi irrinunciabili nel rapporto tra musica e cinema. All'inizio Crowe è stato giornalista e critico e le sue interviste a gente come Neil Young, Bob Dylan, Eric Clapton e i Led Zeppelin si ricordano quali pietre miliari, dal valore persino letterario. Ai tempi, nonostante avesse solo 17 anni, molti parlarono di lui come dell'erede di Lester Bangs, l'indiscusso numero uno.

Sua l'idea di inventarsi, insieme a JJ Abrams, un serial in dieci puntate incentrato sul backstage dei tour delle r'n'r band, tra situazioni paradossali e comiche e quell'allure leggendaria che accompagna i musicisti e la loro crew sulla strada. Realizzato per Showtime, Roadies ha debuttato su Mediaset Premium Stories il 30 gennaio e ancora una volta si è capita la difficoltà di trasformare in televisione lo spirito di un mondo ruspante ed energico che sul piccolo schermo affoga in dialoghi troppo teatrali e artefatti.

Già non aveva funzionato Vinyl, prodotto da Mick Jagger e Martin Scorsese, interrotto dopo la prima serie. Qui l'operazione risulta ancora più ardua, perché invece di ambientare la storia nei gloriosi anni '70, si rischia di collocare il rock, certo fenomeno residuale, nel presente. Un presente dove il successo si ottiene a colpi di like sul social e in cui la minaccia più tremenda è «andare a lavorare per Taylor Swift».

Promessa come la versione 4.0 del Sex & Drugs & Rock and Roll di Ian Dury, l'episodio pilota di Roadies suona male e infatti negli Stati Uniti è stato un altro fiasco. Troppe parole che starebbero bene in qualsiasi sit com; stereotipato lo scontro generazionale tra i vecchi che hanno conosciuto Ronnie Van Zandt dei Lynyrd Skynyrd e i giovani che non sanno neppure chi siano; scarsa la colonna sonora, a parte gli inserti di Bob Dylan e dei Pearl Jam. Davvero soporifero a tratti.

Magari i prossimi episodi andranno meglio. Poco da salvare, nel primo: la forte scena di sesso tra il manager Luke Wilson e una giovane groupie asiatica, qualche situazione da slapstick comedy, un bambino terribile che si rivolge a un aspirante turnista così: «Vaffanculo, hipster del cazzo». Basta così. La storia gira attorno al tour della Staton House Band, più conosciuta sul web che nella realtà.

Suonano un rock abbastanza tradizionale che non può piacere ai giovani e immalinconisce gli adulti.

Così la più bella musica del '900 aspetta ancora il giusto omaggio da parte della tv. Il fatto che le si giri molto attorno fa ben sperare, ma al momento i risultati sono davvero deludenti.

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