Sfilano coi berretti di lana per il freddo ben calcati sulla fronte, gente semplice, e stanca di non lavorare, che protesta perché il loro di lavoro lo hanno dato invece agli altri, stranieri. Sono inglesi, molto diversi da quelli ai quali questi anni ci avevano abituati: non sono gli impiegati sempre giovani e cosmopoliti della City, e neppure vecchi in crociera. Sono piuttosto dei visi consueti alla buona, molto poco cerebrali, proprio come quelli degli operai italiani, che la loro protesta non fa scendere dalla nave.
E perciò a pensarci prevale, mio caro lettore, inevitabile un sentimento di simpatia anzi di complicità per ambedue. Perché siano inglesi o italiani, essi incarnano unidea di lavoro vero, quella economia sostanziale alla quale in questi anni si è badato poco, ogni volta travolta, e che infine pure stavolta sarà umiliata dagli eventi. Infatti sopra i cartelli che gli operai inglesi agitano si legge la frase «British jobs for British workers». Battuta, pare, di qualche comizio del primo ministro Gordon Brown, che non deve averla però molto ben pensata. E non solamente perché fino allaltro ieri, per anni la City e Albione si sono arricchiti col liberismo. Ma perché in questa vicenda un «job» soltanto e davvero «british» risulta piuttosto complicato da trovare.
La raffineria Lindsay Oil sta sì in effetti nel Lincolnshire, ma è della Total francese. Inoltre la ditta dei lavoratori italiani e portoghesi sulla nave è la Irem di Siracusa, che però, a quanto si legge, ha vinto una gara dappalto, e risulta subcontractor di una qualche ditta americana. Insomma la vicenda è molto più complicata di quanto a prima vista si potrebbe pensarla. Di inglese cè il suolo certo, e la gente che non ha lavoro, il resto è invece lesito del mondo sempre più astratto, e oggi in crisi che questa malaccorta globalizzazione ha plasmato. Dunque, pure linsulto preventivo che i grevi operai del Lincolnshire dedicano a Gordon Brown ha la sua giustificazione. Dirimere la questione col suo slogan gli sarà impossibile. E tuttavia resta il fatto che nelle tv di tutto il mondo la verde Inghilterra non è più quella di prima. Delle pubblicità col giovane rampante che su un prato, amica accanto, accendeva il computer e speculava alla City. Adesso sotto i piedi degli operai del Lincolnshire non cè gran che di verde: ma solo il fango calpestato dellinverno. Una nazione ha fallito e non soltanto le sue banche, statalizzate nellignominia, coi risparmi in pericolo.
Era già successo settantanni fa circa, più o meno negli anni nei quali John Maynard Keynes scriveva proprio le seguenti frasi: «Simpatizzo, perciò con quelli che ridurrebbero al minimo, invece che con quanti massimizzerebbero, gli intrecci economici tra le nazioni. Le idee, la conoscenza, larte, lospitalità, i viaggi, queste sono cose che dovrebbero per loro natura essere internazionali. Ma lasciamo che le merci siano fatte in casa, quando sia ragionevole e convenientemente possibile; e soprattutto rendiamo la finanza un affare primariamente nazionale». Il saggio dove si leggevano queste parole, a scansare ogni equivoco, si intitolava appunto National Self-sufficiency. A conferma di quanto i britannici abbiano da sempre unidea molto pratica degli ideali liberisti. Dunque potremmo leggere nella protesta degli operai inglesi pure un sintomo che i tempi, persino in Inghilterra, sono cambiati. Il che rende ancora più ridicoli quanti ci volevano far imitare la City o spergiurano ancora sulla globalizzazione.
E però cè anche dellaltro da dire: questa economia è evoluta a una astrazione che annienta lumano. Troppo si è deciso solo coi bilanci, per via di giri cartacei e vertiginosi che i progressi della comunicazione hanno peggiorato. Troppo poco invece si è badato al territorio, e agli uomini che vi abitano.
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