SAGGISTICA

Più o meno abitavano tutti lì, sul lato sinistro della Senna, all’interno di uno spazio delimitato a ovest e a est da due ponti, Les Invalides e Sully, a sud da una stazione ferroviaria, la gare Montparnasse. Avevano più o meno studiato negli stessi licei, concorso alle stesse scuole superiori, frequentato la stessa università, quella Sorbona che di questo sbilenco quadrilatero era il centro geografico e simbolico. Mangiavano più o meno negli stessi ristoranti, caffè, brasseries, avevano in comune gli editori per cui scrivevano libri, i quotidiani e i settimanali per cui scrivevano articoli, le riviste per cui scrivevano saggi. Si incontravano negli stessi bordelli e capitava che si palleggiassero mogli e amanti. Erano quelli della Rive Gauche.
Negli anni Trenta del Novecento, il 50 per cento della popolazione universitaria stava qui, e quasi il cento per cento di quella rappresentata dagli allievi delle grandes écoles. In un pugno di vie trovavi concentrata l’editoria di Francia: Gallimard aveva sede in rue Sébastien-Bottin, Grasset in rue de Saintes-Péres, Plon in rue Garancière, Flammarion in rue Racine... Un quarto d’ora a piedi era sufficiente per passare da uno scrittore all’altro: Malraux stava in rue du Bac, Gide in rue Vaneau, Chamson dietro al Pantheon, Cassou davanti alla chiesa di Saint Germain-des-Prés. Nel 1936, quando Léon Blum andò al potere con il Fronte popolare, ci fu chi giustamente parlò di «uno di noi». Ex alunno dell’Ecole nationale supérieure, ex critico letterario e teatrale, saggista prima di scegliere a tempo pieno la politica, Blum era l’incarnazione di una certa «repubblica dei professori», gli intellettuali alla guida dello Stato...
Era una «guida a sinistra» ed era una guida pericolosa in una nazione dove la destra culturale non era un ornamento, ma un contropotere radicato e influente. Il settimanale più venduto, 600mila copie di tiratura, era il conservatore Gringoire, il quotidiano monarchico Action Française vendeva più copie del Figaro. Suo leader riconosciuto era Charles Maurras, che in quel 1936 che aveva spalancato a Blum le porte dell’Eliseo e aveva visto spalancarsi per lui quelle della Santé, il carcere di Parigi: incitazione all’assassinio, era l’accusa. L’Italia era appena entrata con la forza in Etiopia e in caso di sanzioni del governo francese i responsabili avrebbero ricevuto del piombo, era stato il suo commento scritto. Negli otto mesi che passò in cella, il suo movimento venne sciolto, ma non il suo giornale, e lui venne poi eletto all’Académie Française...
Maurras abitava in rue Verneuil, a due passi dal Flore, il caffè dove riceveva, lo stesso che in seguito sarebbe stato identificato con la filosofia di Jean-Paul Sartre. Pranzava lì davanti, alla Brasseri Lipp, si definiva «a sinistra della destra» e la sua parola d’ordine era «la politica innanzitutto». Per l’Action Française transitarono un po’ tutti: comunisti come Paul Nizan, Robert Vailland, Claude Roy, fascisti come Robert Brasillach e Lucien Rebatet, surrealisti come Emmanuel d’Astier de la Vigerie, cattolici come François Mauriac e Georges Bernanos. Il suo critico letterario più illustre si chiamava Léon Daudet: aveva ammirato Proust, cercherà di far vincere il Goncourt all’esordiente Céline...
Era proprio quest’intreccio a rendere paradossale il clima di quell’epoca e bene hanno fatto le Edizioni Sylvestre Bonnard a ripubblicare, a quasi trent’anni di distanza dalla sua prima edizione, La Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla Guerra fredda di Herbert R. Lottman (pagg. 503, euro 36), saggio che alla sua uscita si impose per ricchezza di documentazione e anticonformismo, ritratto di una generazione delineato come in corso d’opera grazie a un certosino lavoro di fonti d’archivio, interviste, inediti.
Una generazione dove spesso e volentieri legami amicali, l’aver condiviso una scuola, una rivista, un movimento di idee, un sodalizio artistico, conteranno più delle inimicizie ideologiche, degli odi politici, delle scelte di campo belliche... Nella Francia sconfitta e occupata dai tedeschi, il fascista e collaborazionista Drieu La Rochelle farà da scudo al comunista Aragon, al resistente Paulhan, al futuro gollista Malraux... A guerra finita, l’antifascista Mauriac cercherà di salvare dalla fucilazione il fascista Brasillach, l’esistenzialista Sartre sfiderà il potere culturale comunista per difendere la memoria dell’amico Nizan, che i comunisti vorrebbero far passare per spia dei nazisti...
Americano, Lottman ha quel sano pragmatismo anglosassone che gli permette di scivolare indenne attraverso la retorica intellettuale in genere e la retorica degli intellettuali francesi in particolare, mai così attiva come in quell’arco di tempo che segna l’apogeo e la decadenza di una cultura. È un pragmatismo che non sempre gli permette un vero approfondimento psicologico, ma gli evita comunque la trappola delle dichiarazioni di principio, delle ricostruzioni a posteriori, del politicamente corretto. Sotto questo profilo, la ricostruzione della Francia intellettuale occupata è esemplare, e la saggistica sul tema uscita successivamente non ha fatto altro che confermarla nell’integrarla. Interessante è anche lo spaccato immediatamente postbellico, la cecità stalinista del Partito comunista francese, che sarà alla base della sua marginalizzazione e poi scomparsa nel giro di vent’anni, e dei suoi «compagni di strada», fra ritorsioni ed espulsioni, ortodossia pubblica e cinismo privato.


Il sociologo Edgar Morin uscirà dal partito soltanto perché lo butteranno fuori: «Ero solo come un fantasma mentre in tutto il mondo marciavano gli operai... Avevo perso per sempre la comunione, la fratellanza. Escluso da tutto, da tutti, dalla vita, dal calore, dal partito. Mi misi a singhiozzare». Ah, le lacrime degli intellettuali...

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