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Saigon, gli uomini d’affari rimpiazzano i «compagni»

Raramente, qui, il tempo si arresta. Eppure, al sorgere dell’alba, con le ultime gocce di temporale, la città si ferma. Con un respiro improvviso, Saigon torna a essere Saigon: una luce tenue ondeggia sopra gli edifici della Cocincina, entra dalle persiane delle case coloniali e indugia, indolente, sulle terrazze degli alberghi e nei caffè francesi. Quella che appare è HCMC, Hô Chi Minh City, con la sua rumorosa fiumana di motociclette, lo sfavillio dei suoi edifici, delle bandiere rosse e dei carri armati di un tempo, tirati a lucido davanti ai musei, che celebrano la vittoria del Nord sulla vecchia capitale sudista. Dal porto ingombro di mezzi, dai viali intasati di traffico e da mille viuzze sovraffollate, ecco la vita che esplode, brulicante e industriosa. Essa si perde nell’afa e nel baccano. Nell’odore acre della benzina degli scooters, l’aroma dei gamberetti cotti alla griglia sui marciapiedi, i profumi di soia e di citronella che si sprigionano dai chioschi. Bisogna attendere l’aria fresca della sera, portata dalla brezza che sale dal fiume, per riprendere i sensi.
Perla d’Oriente
«La Perla dell’Estremo Oriente», oggetto di tanti racconti e fantasie esotiche, viene qui interamente vissuta. L’aria non è meno inebriante - «Quando il sole scende all’orizzonte, a Saigon gli elegantoni si preparano e se ne vanno, a piccoli passi, a gridolini, notti di Cina, notti di carezze...» -. Da parte sua, zio Hô, la figura emblematica dell’indipendenza, veglia sempre sugli edifici pubblici e sulle banconote. Ma l’agglomerato che porta il suo nome ed esibisce i suoi ritratti, in realtà non esiste più. Gli slogan quinquennali, le case della cultura comunista e le sfilate popolari hanno un profumo antiquato, come quello che esala dalla vecchia città francese. Ormai sono gli uomini d’affari asiatici che guidano le danze e che fanno perdere il ritmo ai dignitari del partito, per i quali la soluzione dei problemi, ripetuta all’infinito - ammissione di colpa - è la lotta contro la corruzione.
Sguardo al futuro
Sta scritto - ovunque e in inglese - nella vistosa ricchezza delle banche internazionali e sui pannelli dei numerosi cantieri: presto sorgerà una nuova megalopoli, nella verticalità climatizzata delle sue torri, i suoi record di crescita, di profitti e di inquinamento. Molte case coloniali, che incominciano a cadere sotto i colpi della speculazione immobiliare, saranno allora scomparse. Senza uno sguardo sul passato, i Saigonesi, seguendo l’esempio cinese, avanzano verso questo futuro, avidamente.
Mondo di affari
Nati in Indocina e ritornati in Vietnam, Philippe e Dominique Serène, vivono in un nuovo quartiere di HCMC (Hô Chi Minh City). Appena superato il fiume, a venti minuti dal centro, affittano una villa con giardino nell’antico complesso BP, una residenza recintata, ribattezzata «An Phu». All’alba, nella calma e nel verde, i «joggisti» occidentali e orientali percorrono le vie Mimosa, Tulipano e Loto, mentre gli autisti attendono nelle berline parcheggiate sotto le palme, le palme di cocco e le areche.
A proprio agio in questo mondo di affari che è il loro mondo, i Serènes non hanno mai smesso di coltivare il loro universo, fra i mobili laccati, i bollettini della società di studi indocinesi e i ricordi di famiglia, come quel distintivo, appeso alla parete, dell’Ordine reale del Milione di elefanti e dell’ombrellino bianco. I loro genitori erano giunti qui negli anni Trenta. La loro giovinezza, negli anni Cinquanta, fu ancora quella, idilliaca, della Cocincina. A Saigon, Philippe era studente al Liceo Chasseloup-Laubat. Dominique era al Marie-Curie. Ragazzi e ragazze passeggiavano nei giardini del palazzo del governatore, si incontravano al circolo sportivo e si davano appuntamento al giardino zoologico.
All’annuncio di un battello proveniente dalla madrepatria, tutti scendono lungo la rue Catinat, quella dei negozi, dei cinema, dei bar e degli alberghi. Fra questi c’è il Continental, dove Mayréna, uno dei «Re dei Selvaggi», pagava i suoi conti con oggetti di arredamento, cosa che affascinava tanto Malraux, sempre coinvolto nel suo traffico di antiquariato. Alloggeranno, in seguito, in questo albergo Graham Greene e molti corrispondenti di guerra francesi, i quali - dalla terrazza e dal bar - rivaleggeranno con i loro colleghi americani, alloggiati di fronte, all’Hotel Caravelle, seduti davanti a una bibita.
Negli anni Cinquanta, per dare il benvenuto a una nave, «le ragazze si mettevano le gonnelline, si agghindavano, e immancabilmente si cambiava ragazza», ricorda ancora, divertito, Philippe Serène. E la settimana languidamente scorre nelle vaste dimore coloniali, poste su quello che viene chiamato «plateau». Poi, nel giorno del Signore, le famiglie vestite a festa si ritrovano alla basilica di Notre-Dame, che segna il confine con la città bassa, un tempo alla mercé delle piene del fiume Saigon.
Il nuovo corso
Tutto è cambiato, nulla è cambiato. Il liceo Chasseloup-Laubat, che un tempo si chiamava Jean-Jacques Rousseau, onora oggi la memoria del letterato Le Quy Don. L’edificio ha comunque mantenuto la sua eleganza e la serie di cortiletti separati fra loro da tettoie ricoperte di tegole. Oggi, è sugli scooters che ragazze e ragazzi si spostano per raggiungere altri adolescenti spensierati al liceo Marie-Curie. Gli splendidi parchi sono sempre al loro posto. Al circolo sportivo, un tempo riservato ai «bianchi» e all’élite annamita, giovani disinvolti ed esili fanciulle giocano a tennis o si tuffano nella piscina scoperta. Raso al suolo da un bombardamento, l’antico palazzo del governatore, che diventò sede della presidenza della Repubblica Sud-Vietnamita, è stato trasformato in un Centro Congressi. Installato nel giardino, il carro armato nord-vietnamita che aveva forzato le cancellate nel 1975, recentemente ha visto passare le limousines dei grandi argentieri asiatici, venuti a preparare l'entrata del Vietnam nell’Organizzazione Mondiale del Commercio...
L’era comunista ha istituito i suoi simboli, rinominando, riassegnando, ridistribuendo onori ai dignitari del Partito e dell’esercito, ma alla fine la situazione è stata più congelata che non radicalmente trasformata. Solo quattro vie francesi sono sopravvissute alla purga, che ha risparmiato tre scienziati - Pasteur, Calmette, Yersin - e il gesuita Alexandre de Rhodes. Quest’ultimo, alla fine del XVII secolo, trascrisse la lingua vietnamita nell’alfabeto romano, eredità che venne in seguito conservata da un Paese, che molto si preoccupava di poter uscire dall’angosciante orbita cinese.
La toponomastica
La rue Catinat, nome della corvetta ingaggiata per la conquista coloniale, è diventata rue «Liberté», poi rue «Insurrection». Il bianco municipio, di stile neo-rinascimentale, ospita il comitato popolare dell’agglomerato. Dopo alcune vicissitudini, il teatro, inaugurato nel 1900, ha ritrovato la sua vocazione originale. La posta, la cui volta fu costruita da Gustave Eiffel, è sempre in funzione, e i suoi scrivani pubblici continuano a scrivere missive.
Sul «plateau», nei dintorni del viale Dien Bien Phu, le belle case coloniali rivaleggiano nei colori, poiché i Vietnamiti preferiscono i toni vivaci ai vecchi colori pastello francesi. Tutte queste dimore hanno in comune i soffitti alti, le numerose finestre, le molte terrazze e i tetti sporgenti, tutte figure architettoniche adatte al clima caldo.
Capitale economica
Durante i loro brevi soggiorni negli anni Ottanta, i Serène non avevano più ritrovato il «loro» Vietnam. «Negli alberghi - si ricorda Dominique - non c'era né acqua né elettricità; non c’erano più negozi in rue Catinat, più nessuna cucina, appena delle misere zuppe; e i passanti, di solito così sorridenti e aperti, non parlavano più». Ora che la vita è ripresa, che Saigon si impone di nuovo come il centro economico del Paese, Philippe non vuole lamentarsi della possibile scomparsa dei suoi quartieri coloniali. «Forse - dice - i Vietnamiti vogliono separarsi un po’ dalla Francia e proporre la loro cultura». Ma chi verrà a visitare delle torri del tutto simili a quelle già presenti in tutta l’Asia?
Fra le guide turistiche, che accompagnano i Vietnamiti di ritorno al paese natale, dal quale a suo tempo erano fuggiti, riappaiono i testimoni di tempi dimenticati da tutti. Non è il paradosso minore quello di essere accompagnati nei tunnel di Cu-Chi, scavati dai Viet-cong, o al Museo dei crimini di guerra commessi dai GI, da vecchi traduttori dell’esercito americano, che ormai mettono la loro conoscenza dell’inglese al servizio degli stranieri. Più apertamente di altri, questi personaggi nostalgici ci confidano la speranza di vedere la loro città riprendere il nome di Saigon, che nel linguaggio corrente è sempre stato privilegiato. Questi vietnamiti del Sud parlano anche dell’insopportabile influenza che la gente di Hanoi esercita sulla loro città. «È vero - fa notare Philippe Serène - il mio vietnamese è datato, perché la gente del Nord, che ricopriva tutte le cariche importanti, e in particolare all’istruzione, ha inculcato nella popolazione un accento diverso».
Alle visite logoranti ai vecchi campi di guerra, i Saigonesi preferiscono il delta del Mekong, le sue risaie e i mercati galleggianti. Oppure raggiungere nel week-end, in hovercraft, la stazione balneare di Vung-Tàu, le sue spiagge, i suoi banani, i tamarindi, gli alberi di corallo. La vecchia Cap Saint-Jacques, dove i francesi erano sbarcati prima di risalire i 60 chilometri di fiume che conducono a Saigon, è tornata a essere una località alla moda.
Queste fughe nella natura diventeranno sempre più necessarie per dei cittadini di un agglomerato elevato al rango di provincia, che non cessa di allargarsi. La vecchia città di Thu-duc, a 14 chilometri dal centro, oggi è l’estrema zona nord. A sud, Phu My Hung è una città nuova, con i suoi edifici, le sue società internazionali e i suoi supermercati, che soddisfano i gusti dei giapponesi e degli occidentali che vi abitano, e che vivono sotto una campana di vetro. E domani, sulla penisola situata di fronte alle banchine, sulle quali sbocca l’antica rue Catinat, sorgerà Thu Thiem, con il suo ponte, il suo tunnel, la sua metropolitana, le sue autostrade, i suoi edifici.
Colon, la città cinese che i francesi avevano incorporato alla «Perla dell’Estremo Oriente», non è più molto lontana da un centro città sempre meno riconoscibile. Tornato a essere un polmone economico di una città nata per il commercio, questo quartiere ha tuttavia perso la sua magia velenosa d’altri tempi, quando vi si concentravano i giochi, le prostitute e le fumerie d'oppio. Dal palazzo della dogana, che aveva il monopolio della vendita, la droga passava attraverso esperte mani cinesi.

Ed era questo un buon motivo per alimentare le fantasie in Francia, dove un tempo si cantava: «Nel porto di Saigon vi è una giunca cinese, misteriosa e sorniona, di cui nessuno conosce il nome. E la sera nell’interponte, quando la notte si fa complice, si infilano furtivamente gli europei, cercando profondi cuscini...».
Le Figaro/Volpe
(traduzione di Rosanna Cataldo)

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