Quando la malattia diventa irreversibile Così i medici imparano a gestire il fine-vita

La sfida del gruppo Fadoi: insegnare a non accanirsi con terapie a tutti i costi

Accompagnare alla morte, senza dolore. Far capire (innanzitutto ai medici) quando è il momento di smettere di accanirsi con le terapie ma è bene limitarsi ad alleviare le sofferenze. È un obbiettivo ambizioso quello della Fadoi, la federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti, che ha iniziato un lavoro di sensibilizzazione sul tema del fine vita coinvolgendo o medici, i pazienti e i loro famigliari. Il ghiaccio è stato rotto con una serie di convegni in tutta Italia e a breve si procederà con altre iniziative rivolte anche alla popolazione. «Ci sono ancora parecchi tabù da superare - spiega Francesco Dentali, direttore del dipartimento di ricerca di Fadoi e della Medicina generale di Luino - Ma bisogna che i medici capiscano quando l'accanimento terapeutico può rivelarsi deleterio per il paziente. È ovvio, ad esempio, che sottoporre un paziente ad accertamenti invasivi e potenzialmente dannosi senza che poi questi si concretizzino in alcuna terapia, è un atto inutile e doloroso per chi è privo di speranze di guarigione oltre che di miglioramento. I medici devono capire quale è il momento di dire basta alla diagnostica invasiva o alle terapie, che non siano quelle palliative e di idratazione. Quanto prima questo succede, tanto prima ci si potrà concentrare su una buona assistenza e sulle cure palliative».

C'è una linea oltre la quale è più importante alleviare le sofferenze del malato anziché cercare di curarlo ad ogni costo. Oltre la quale non ha più senso inseguire a tutti costi una diagnosi, proporre chemioterapie aggressive o di ultima generazione, o trattamenti invasivi come una nutrizione forzata tramite sondino o endovenosa. Meglio allora un aiuto a domicilio o all'interno di un hospice. Meglio usare un palliativo per ridurre la nausea, il dolore e tutti i disagi che una persona allettata può avere.

La sfida per la comunità medica è innanzitutto far capire esattamente cosa si intende per fine vita, concetto ben distinto dall'eutanasia. La rinuncia all'uso di terapie sproporzionate fa sì che la malattia faccia il suo corso e lascia il paziente al naturale scorrere degli eventi. Eutanasia significa invece interrompere la vita volontariamente, ad esempio staccando la spina. «Vorrei che i familiari capissero che non è facile per un medico interrompere le terapie attive, né comunicarlo al pazienti e alla famiglia - aggiunge Dentali - Ma è necessario un cambio di mentalità. Siamo abituati a promesse di immortalità, a ricerche che ci parlano di vita fino a 110-120 anni.

E così è normale che per tutti noi sia più difficile accettare il momento in cui la malattia diventi irreversibile. È però importante non creare false aspettative con cure aggressive che sappiamo rivelarsi del tutto inutili e potenzialmente dannose».

MaS

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