Il santo di Pacini in Parlamento

Nell'attesa che lo abbandoni anche il suo cane, il senatore Antonio Di Pietro di questo passo ci racconterà che Mani pulite era un bluff e che lui l’aveva sempre detto, che Craxi era un santo e che lui l’aveva sempre sostenuto, che la magistratura fa schifo e che le sentenze non vanno rispettate, anzi: occorre dar fuoco ai palazzi di Giustizia e lui del resto l’aveva suggerito per primo.
D'accordo, è ormai stranota l'abitudine dipietresca di confidare sulla cattiva memoria altrui per sostenere qualsiasi tesi, ciò che possa tornargli utile entro al massimo un paio d’ore: ma questa volta il caso è speciale. Sì, perché ieri, al Corriere della Sera, il nostro molisano ha rilasciato un’intervista sul banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia: il gran cassiere occulto della prima Repubblica e dei fondi neri Eni; Pacini è in carcere da venerdì scorso per una condanna a sei anni per appropriazione indebita, pena chiesta e ottenuta dal pubblico ministero Fabio De Pasquale, e il primo dato da registrare è questo: i due, Di Pietro e De Pasquale, si odiano. Si odiano notoriamente e innegabilmente, questo per vecchie faccende di cui a noi giova ricordarne solo un paio. La prima: De Pasquale era il magistrato che nel luglio 1993 gestì infelicemente il caso di Gabriele Cagliari, il dirigente Eni poi suicidatosi a San Vittore dopo una promessa di scarcerazione poi disattesa: e Di Pietro nell’occasione mollò clamorosamente il collega e disse alla stampa che le promesse si devono mantenere e che lui si sarebbe comportato diversamente.
Seconda faccenda: nell’autunno 1993 De Pasquale indagava per l’inchiesta Eni-Sai e aveva spiccato mandato di cattura in particolare per il manager Aldo Molino, latitante all’estero: il quale il 26 settembre sbarcò a Linate ma si consegnò solamente a Di Pietro: De Pasquale non fu nemmeno avvertito. Nacque una lite clamorosa che i cronisti del Palazzaccio ricordano ancora: De Pasquale urlò distintamente in corridoio, all’indirizzo di Di Pietro, «Pacini Battaglia! Pacini Battaglia!», tanto che il dissidio in seguito verrà verbalizzato anche dagli ispettori ministeriali. Ma che c’entrava il banchiere? C’entrava, perché Pacini era già nelle mire di De Pasquale ma sembrava appannaggio esclusivo di Di Pietro. De Pasquale, per dire, aveva cercato Pacini per farlo testimoniare nel processo Eni-Sai ma aveva atteso invano per quattro volte: 4, 5 e 10 maggio, 2 giugno; non era riuscito a trovarlo nella residenza italiana né in quella svizzera né attraverso l’avvocato di Pacini, Giuseppe Lucibello, grande amico di Di Pietro. Con quest'ultimo, e con un maresciallo incaricato, Pacini invece era stato disponibile per tre interrogatori in febbraio e due in marzo (oltre a quelli del 1993) e così pure farà il 30 giugno e il 27 settembre, dopo esser stato tuttavia dichiarato «irreperibile» da De Pasquale. E ci avviciniamo al punto. Perché nell’intervista di ieri, fatto davvero insolito, Di Pietro difende Pacini Battaglia. A nostra memoria gli capitò solo un'altra volta di improvvisarsi garantista: e fu sempre per difendere Pacini Battaglia, il che potrebbe anche essere di per sé condivisibile; il banchiere difatti ha 71 anni e cinque by-pass coronarici, oltreché una prospettiva di sei anni di galera che in effetti paiono inutili prima che tardivi. Ma che a proclamarlo sia pubblicamente Di Pietro, se non altro, incuriosisce. Anche perché il titolo dell’intervista è questo: «Pacini in carcere? Non ha santi in paradiso». Forse non ne ha più: e ciò prescindendo dal fatto che la magistratura bresciana sancì che Di Pietro non dovesse essere processato per i suoi presunti e illeciti rapporti col banchiere. Poco importa: alcuni fatti, benché non penali, sono assodati, e vi sarebbe da riempirvi un libro. Ne ricordiamo solo qualcuno.
Come detto, Pacini Battaglia nel 1993 sconvolse le consuetudini di Mani pulite ed evitò un primo interrogatorio adducendo pressanti impegni; poi ne eluse un secondo per sopraggiunti problemi al cuore; il terzo, caso unico, sarà celebrato in seduta segreta con l’avvocato Lucibello che in apertura espose i malanni del banchiere e Di Pietro annuì: «Mi sembra che le argomentazioni della difesa mi trovano d’accordo». Poi addirittura cacciò un fotografo impiccione dopo avergli sequestrato il rullino. Anche sul fatto che Pacini scelse un difensore non quotatissimo, ma amico Di Pietro, si è scritto a sufficienza: ma il fatto resta. Il primo e teorico provvedimento d’arresto per Pacini fu dunque il 17 febbraio. Il 19 gli perquisirono la casa romana e gli uffici, ma lui restò ufficialmente latitante. Il 10 marzo lo interrogarono e lui, secondo una testimonianza raccolta dagli inquirenti bresciani, prima di lasciare casa disse alla moglie: «Mi hanno assicurato che tornerò con le mie gambe». L’interrogatorio fu segreto, senza giornalisti e impicci. Di lì in poi, davanti agli inquirenti, la parola di Pacini varrà oro: anche se spesso salverà colpevoli e additerà innocenti. Ogni polemica sarà respinta da un Di Pietro che su ogni decisione invocherà la corresponsabilità dell’intero Pool, anche se in parallelo non si conteranno i distinguo del Pool medesimo. «Pacini - dice Di Pietro nell’intervista - fu rimesso libero dal giudice Italo Ghitti». Ma a parte il fatto che sarebbe come dire che le leggi non le fa il premier bensì la Gazzetta ufficiale, il giudice Ghitti avrà a dire qualche anno dopo: «Certe scelte non sono dipese da me, anche perché per alcuni imputati la Procura non aveva chiesto la cattura». E se è vero che la firma dei pm di Mani pulite compariva sempre all’unisono, giacché era la regola, è assai meno vero che vi fosse sempre convergenza. Scriverà un collega pm, Gherardo Colombo: «È successo che Antonio divenisse esclusivo nel trattare la posizione di alcuni indagati; che tendesse cioè a occuparsi da solo della posizione di costoro».
Forse Pacini Battaglia non aveva santi in paradiso, ma aveva quantomeno degli scrupolosi magistrati in Procura. Quando il pm Vittorio Paraggio s’imbatté nel nome di Pacini indagando sulla cooperazione, a Roma, Di Pietro gli spedì subito un fax con allegata «per conoscenza, la memoria redatta dalla difesa di Pacini Battaglia». Cioè: un pm che spedisce a un collega la memoria difensiva dell’accusato. Poi fece lo stesso con quest’altro fax: «Trasmetto stralcio di verbale d’interrogatorio stilato il 26/5/93 nei confronti di Pacini Battaglia Francesco (S) Ribadisco che, nei confronti del predetto, procede questo ufficio». Il dettaglio è che a Milano, sulla cooperazione, non procedeva nessun ufficio. Il resto è in parte noto. Ci sono la solite intercettazioni dell’11 gennaio 1996, con Pacini che disse rispettivamente che «io sono uscito da Mani pulite perché s’è pagato» e poi ancora «Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato», coi due a spiegare che voleva dire «sbancato» che poi diverrà «sbiancato» e poi «stangato» e poi «stancato». Ci sono particolari a tutt’oggi inspiegabili, tipo che dal febbraio al luglio 1995 Di Pietro ebbe in uso un telefono cellulare di Pacini. C’è che, anche dopo le dimissioni di Di Pietro da magistrato, dall’autunno 1994 al 1996, Pacini diverrà «confidente» della Procura e si apriranno roventi polemiche giacché il Codice penale proibirebbe l’utilizzo di «fonti confidenziali», soprattutto perché in sostanza Pacini dava informazioni alla Procura che indagava su di lui. Niente di penalmente rilevante, si diceva: ma a Pacini, nel complesso, andò sicuramente di lusso. Forse troppo: così come troppo è il carico penale che a nostro avviso lo attende, oggi, dall'alto dei suoi 71 anni e della sua malferma salute.

Tuttavia, per fortuna del garantismo e dello Stato di diritto, ora è intervenuto Antonio Di Pietro: Pacini non ha santi in paradiso ma ha almeno un senatore in Parlamento, un noto garantista che ora, in forma esclusiva, rilascia interviste comprensibili probabilmente solo a lui e forse, speriamo noi, anche a Pacini Battaglia. Il quale, se vorrà, potrà poi spiegarcele a sua volta.

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