Scala, un poker d’assi fa grande «Rigoletto»

Alberto Cantù

da Milano

Come insegna Monsieur de la Palisse, il quale un quarto d’ora prima di morire era vivo, è verità evidente che a «fare» l’opera sono gli interpreti. Prendete Rigoletto, titolo popolare quant’altri mai, dunque soggetto ai peggiori maltrattamenti esecutivi e alle croste della cosiddetta tradizione. Opera popolare ma anche rivoluzionaria perché ne è protagonista un gobbo, un «diverso» che la censura ottocentesca mai digerì: uno senza nome (Rigoletto è il soprannome) però non lo scemo del villaggio, tollerato ieri più di oggi o soltanto il buffone che sfoga la rabbia per la sua deformità istigando il bel Duca di Mantova. «Incredibilmente» Rigoletto ha una casa, piange una moglie, accudisce alla figlia Gilda che ama teneramente e protegge, con furia animalesca, da brutture a lui ben note.
Prendete il Rigoletto andato in scena alla Scala ieri l’altro (si replica fino al 10 febbraio), spettacolo accolto con un grande, grandissimo successo salvo qualche dissenso che spiegheremo e dove a «fare» l’opera erano in quattro: il maestro concertatore e direttore Riccardo Chailly, il più festeggiato di tutti, un’orchestra mirabilmente duttile ed efficace, un coro (maschile) da cui Bruno Casoni ha cavato meraviglie ancora superiori alle sue usuali e il protagonista Leo Nucci che al 401° Rigoletto preserva fiato lunghi e un controllo vocale da maestro, non conosce routine o supponenza e disegna una figura lacerata anzi dissociata fra patologia e umano strazio.
Chailly dà la chiave del «suo» Rigoletto già nel Preludio, che ci spiega come troveremo arte sopraffina e non luoghi comuni. Nel rifarsi all’edizione critica ripulisce anzitutto il suono definendone il «peso specifico» espressivo. È un suono teso e terso, esente da enfasi, dove le figure non tematiche di tromba e trombone (leggerezza formidabile) sono tutt’uno con la tragedia del do minore e la veemente cadenza finale «piange» desolata portandoci di botto all’epilogo.
Sono le danze lievi in quinta, il pulsare vorticoso di «cortigiani vil razza dannata» (ma poi tocca al cantante giocare la partita), i rintocchi volutamente metronomici di «Questa o quella» (per il Duca una gonnella vale l’altra). È una sottolineatura porosa del sarcasmo di Rigoletto, sono gli effluvii dei legni che preludiano e ambientano il «Caro nome» e poi vedono dolcissime sottolineature dei violini. È il crescendo di tensione quasi insostenibile, calcolato come un meccanismo di precisione, che chiude l’atto secondo. È un gioco di accelerazioni e rallentando per cui il «la-ra-la-ra» di Rigoletto trova finalmente il «represso dolore» indicato in partitura.
I cantanti hanno chiesto a Chailly di «regalare» loro gli acuti e le cadenze di tradizione e lui, generoso quanto rigoroso con lo strumentale, ha detto sì. Scelta improvvida se non antistorica per ragioni drammaturgiche e pratiche. Perché se Chailly è osannato, se lo spettacolo lussuoso e lussurioso anno 1994 piace sempre, cadenze e acuti tornano indietro come un boomerang motivando i soli dissensi della serata.
Non ha problemi di acuti Nucci e non ne ha Marcelo Alvarez-Duca, poco attore e molto tenore che però quando tenoreggia ad oltranza, cade in crisi di cattivo gusto (apertura atto secondo; «Possente amor»). Altrove è amoroso squisito, più leggiadro che vorace sessualmente («Questa o quella» scivola via) più lirico che spavaldo con «La donna è mobile».
I problemi nei sopracuti un po’ sbiancati e tremuli li ha, oggi, Andrea Rost-Gilda, la cui voce pur dall’elegantissimo porgere, flettere e sfumare, è meno pastosa d’un tempo. Un po’ questo, un po’ dei «buu» maleducati, il mi bemolle fine atto secondo le si incrina. Il coro: vero personaggio che racconta, commenta, dileggia come un sol uomo.

Marco Spotti-Sparafucile è giovane, bello e bravo. Ha buon materiale come Marco Camastra-Marullo e l’impeccabile Ernesto Panariello-Monterone. E Maddalena, invece, un «contralto comprimario». Al solito, d’accordo: ma peccato.

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