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Scandali e corruzione stanno per seppellire il «carnevale» di Lula

Su richiesta dei partiti d’opposizione un tribunale amministrativo potrebbe togliere al Presidente del Brasile i fondi per tenere in vita il suo partito

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

A Lula, forse, stanno per ritirare la patente. Non quella di guida, ma quella di uomo politico e dunque di leader e dunque di presidente della Repubblica. Proprio così: l’ultimo passo di una complicata inchiesta per corruzione è la richiesta di diversi partiti d’opposizione a un tribunale amministrativo di togliere al Partito dei Lavoratori (Pt) non solo i finanziamenti pubblici essenziali per una campagna elettorale e anche soltanto per mantenere in vita le strutture di un partito, ma anche, appunto, della «patente» per essere considerato partito. Non era mai successo, neppure in Brasile. Uno scandalo per corruzione non solo mette «in stato d’assedio» (questo il titolo di una lunga inchiesta del Financial Times) il governo e la presidenza della Repubblica, ma minaccia di distruggere politicamente l’uno e l’altro senza bisogno di un golpe né di una dimostrazione di piazza e neppure, forse, delle elezioni. Senza precedenti. E dire che il Paese pure ricco di eventi e personalità politiche piene di folclore e dove lo stretto controllo puritano dei fondi pubblici e della vita degli uomini politici non è mai stato a livelli anglosassoni o, per dirne una, norvegesi. Questo è dopotutto il Paese in cui qualche decennio fa divenne famoso, e rimase impunito, il governatore di un’importante provincia che si presentò agli elettori con lo slogan ufficiale (proprio stampato sui manifesti che invitavano a votare per lui) del seguente tenore: «Rubo ma faccio».
Il movimento di Lula, oltretutto, non ha fatto molto, anzi quasi niente in paragone alle promesse, che erano pressappoco di una palingenesi sociale dopo secoli di «governo dei corrotti» e decenni di dittatura militare, contro la quale Luiz Inacio si era profilato per il suo coraggio e la sua tenacia e si era guadagnato nomignolo affettuoso di Lula. La sua vita era stata tormentata, la sua carriera politica è cominciata tardi ma senza che lunghi anni trascorsi nel «deserto» gli siano serviti granché come riflessione. Sparita la dittatura, intervenuto a poco a poco il disincanto degli elettori verso i partiti moderati, Lula ha creduto di poter entrare nel ventunesimo secolo con gli slogan, e magari gli ideali, degli anni Sessanta o Settanta. Ha promesso molto e non solo ha mantenuto meno (come accade a quasi tutti i governanti), ma ha dato anche l’impressione di muoversi a casaccio: governando assieme a dei partiti moderati (anche perché il suo non dispone della maggioranza assoluta in Parlamento) e andando ad abbracciare Fidel Castro, promettendo «la terra ai contadini» e la distruzione del latifondo per poi lasciare questo programma a metà, o ancora più indietro.
Aveva promesso aiuti generosi ai poveri delle favelas, e fino a un paio di mesi fa gli «umili» avevano ricevuto meno denaro di quanto non sia costata la costruzione dell’aereo presidenziale, fabbricato in Germania, modellato sull’Air Force One di George Bush (con tanto di suite, unità di terapia intensiva, operation room alla Pentagono e «corazza» di un sistema antimissile). Conto provvisorio: 44 milioni di euro. Più le stranezze, dalla proclamata leadership del Brasile per tutta l’America latina («siamo gli Stati Uniti del Sud America»), alla compilazione di una specie di «libretto rosso» contenente tutti i tabù lessicali da evitare: non chiamare «gringo» un gringo, non chiamare «sciita» un terrorista, non chiamare africano chi viene dall’Africa ma specificare sempre da quale Paese, e infine non chiamare comunista un comunista.
Hobby bizzarri ma che possono essere considerati innocenti. Tranne che per il fatto che sono serviti, fino a un certo punto, da coperchio a una pentola in cui ribollivano disavventure ben più gravi. La storia era cominciata in sordina, con le accuse a Delubio Soares, ex tesoriere del Pt, di aver violato la legge nel raccogliere fondi per le campagne elettorali, falsificando documenti e conteggi in combutta con Marcos Valerio, un giornalista amico con accesso a diversi contratti governativi, che usava tra l’altro come «collaterali» per ottenere dalle banche prestiti e poi girare il denaro al partito. Uno dei modi di spendere quel denaro è stato a quanto pare l’«acquisto» di un paio di deputati di un altro partito, per mettere insieme una maggioranza parlamentare che non c’era. Delubio ha finito per confessare, ma ha anche fatto ammissioni che agli avversari politici sono parse far risalire lo scandalo direttamente a Lula. «È impossibile che il presidente non sapesse - ha detto Alvaro Dias, esponente del Psdb, il partito socialdemocratico brasiliano, che nonostante il nome è orientato a destra e ha un passato di sostegno per i regimi militari -: tutte le tracce conducono a lui, e in un modo o in un altro finirà con lo sbatterci la testa. L’unica incertezza è se Lula sarà processato in un tribunale o invece in Parlamento, in un processo politico».
Gli esponenti del Pt naturalmente protestano, anche se ammettono: «Certamente sono state fatte cose illegali, ma la richiesta dell’opposizione è priva di fondamenti giuridici, è truculenta e fa ridere». Ma un altro degli inquisitori, dal nome sonante di Cesar Borges, insiste: «Il partito di Lula non ha perso soltanto la legittimazione morale ma anche i mezzi finanziari per esistere.

Se fosse una società, avrebbe già dichiarato bancarotta».

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