Ma la scienza allunga solo la vecchiaia

La scienza ci allunga la vita. E cosa c’è di strano? Nulla, proprio nulla. Perché la scienza è venuta al mondo nell’antica Grecia proprio con questo scopo: allungare la vita. Oggi il filosofo inglese Roger Scruton ripete nel suo Manifesto dei conservatori (Raffaello Cortina Editore) quanto diceva Lord Salisbury: «Ritardare è vita». Ma ritardare fino a quando? Ritardare oltre il limite naturale della vecchiaia aiuta davvero a vivere meglio? Fin dove è possibile (e giusto) allungare la vita senza allungare la vecchiaia? Il paradosso è proprio questo: allungare la vita in modo indefinito significa allungare la vecchiaia. «L’eternità non ci interessa», ha detto recentemente Umberto Veronesi con i suoi attivi e splendidi ottantuno anni, «ci interessa restare in buona salute per centoventi o centocinquanta anni». Eppure, dietro l’allungamento della vita agisce il potente mito dell’immortalità. E cosa è una vita di centoventi anni o addirittura di centocinquanta se non una sorta di mortale immortalità?
Massimo Fini, bastiancontrario per vocazione, non è affatto convinto che sia una buona idea. E, del resto, non è affatto convinto che sia vero che la vita umana si sia così e così bene allungata. Non era forse già Dante a fissare in pieno Medioevo il «mezzo del cammin di nostra vita» a trentacinque anni? E noi, oggi, quando raggiungiamo la soglia dei quarant’anni non ci sentiamo giunti al giro di boa? Dunque, cosa è davvero cambiato rispetto al passato? Probabilmente, è mutata la qualità della durata e, soprattutto, la qualità della durata per una più ampia quantità di uomini e donne. Ma quanto alla durata e alla scansione delle età della vita e delle sue stagioni non è cambiato un bel nulla. Fini nel suo ultimo libro, Ragazzo (Marsilio), il cui merito principale è la sincerità (oltre allo stile), riporta la divisione delle tre età dei Romani. I contemporanei di Giulio Cesare fissavano la fine dell’infanzia a quattordici anni, quella della giovinezza a quarantasei e l’inizio della vecchiaia a sessanta. È forse davvero cambiato qualcosa dai tempi degli antichi romani? Può darsi che la giovinezza, soprattutto quella psicologica e dell’educazione o formazione dell’uomo, sia stata spostata in avanti e non di poco. Ma le età biologiche sono rimaste proprio le stesse (e, anzi, proprio la sfasatura tra età biologica e maturità è uno dei problemi della nostra contemporaneità). «Ora come allora la vecchiaia inizia, ancora e sempre, a sessant’anni, come sa chiunque abbia compiuto questo fatidico compleanno e non voglia mentire a se stesso», dice il giornalista. A sessant’anni inizia quella che si usa chiamare con pudore pari alla rimozione «terza età», insomma è l’inizio della vecchiaia. Ora, se a sessant’anni si comincia a essere vecchi, che cosa realmente allunga la scienza? Una buona e bella vecchiaia (in pratica, come quella di Veronesi) è cosa da augurare a tutti.

Ma una vecchiaia portata al di là dei suoi limiti naturali e umani ha con sé, inevitabilmente, qualcosa di sinistro. E immaginare un’umanità formata da vecchi ultra centenari che sono vecchi già da due vite è infinitamente triste.

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