La scuola materna di Rignano è un castello di carte e dubbi

Le indagini mostrano un impianto di accuse con troppi punti deboli. Pochi riscontri alle testimonianze dei bimbi raccolte dai genitori. Non risultano sms, telefonate o e-mail tra gli indagati. Le microspie installate nella scuola non hanno rivelato nulla. I pediatri non hanno segnalato niente di strano. Troppe confidenze tra le madri

La scuola materna di Rignano 
è un castello di carte e dubbi

Roma - Se la pedofilia è un reato che non ammette sconti, tanto che l’implacabile legge del carcere (e dei carcerati) mai ha concesso attenuanti, per crocifiggere l’orco di turno occorrono indagini serie e riscontri inattaccabili. Ciò non sembrerebbe avvenuto nell’inchiesta sulle presunte violenze ai bambini dell’asilo Olga Rovere di Rignano Flaminio, a due passi da Roma. Non sappiamo se, come dice la difesa degli arrestati, l’inchiesta è sconvolgente «per l’approssimazione e il dilettantismo» degli addetti ai lavori. Sicuramente quel che le indagini ci hanno regalato è un impianto accusatorio fragilissimo, per certi versi controproducente alle tesi dell’accusa, che rischia di resistere al vaglio del tribunale del Riesame solo per l’onda emotiva che la storia di abusi sui minori suscita nella pubblica opinione. Vediamo perché.

Denunce in serie
La storia della Marcinelle di Rignano inizia con le agghiaccianti denunce presentate da alcuni genitori. Inizialmente sono tre, poi sei, presto diventeranno dieci, sedici, diciannove, alla fine sorpasseranno la ventina in un crescendo di racconti sempre più raccapriccianti. Nelle prime tre denunce i genitori sostengono d’aver ricevuto dai propri figli di 3 anni e due mesi (il più piccolo) e quattro anni (il più grande) alcune confidenze su strani abusi che avrebbero subito all’asilo. Gli orchi indicati negli esposti vengono individuati in due bidelle e una maestra, ma all’esito dei primissimi accertamenti dei carabinieri già si capisce che le cose stanno in un altro modo: le maestre sono due, la bidella una. L’assunto iniziale dei genitori (e degli investigatori) è che le «cose brutte» siano avvenute nel bagno della scuola, in un punto del giardino dell’asilo e in un’aula vuota vicina a delle scale a chiocciola, nel retro del plesso scolastico. Correttamente l’11 luglio, raccolte le denunce (presentate due giorni prima) parte l’attività investigativa: intercettazioni sui telefoni dei tre personaggi identificati, incrocio dei tabulati telefonici, pedinamenti, appostamenti per verificare stile di vita, frequentazioni, contatti eccetera.

L’uomo nero
Nelle settimane successive l’attenzione si concentra su un cittadino dello Sri Lanka noto a Rignano perché lavora alla pompa di benzina dell’Agip: sarebbe l’«uomo nero», l’autista di un pulmino, uno scuolabus, talvolta di una macchina, con cui i bambini venivano portati in una misteriosa villa, una casa successivamente identificata in quella della maestra Patrizia. I bambini lo chiamano una volta Maurizio, un’altra Giovanni, mai con il suo vero nome o cognome: Kelum o De Silva. Dicono tutti che porta tre vistosi anelli, ma in realtà ha una fede minuscola all’anulare sinistro. Dicono che porta il codino, ma in tanti, compreso il suo datore di lavoro (che ha confermato la presenza costante di Kelum al distributore durante l’orario scolastico) smentiscono la circostanza. Tant’è. La comparsa dell’incensurato cingalese è un’evoluzione clamorosa dell’inchiesta, perché porta le presunte molestie anche all’esterno dell’asilo.

Segreti condivisi
Nel momento topico dell’inchiesta le madri dei bambini hanno contatti frequentissimi fra di loro. Un travaso di informazioni e confidenze pressoché giornaliero al punto che, gravissima anomalia, più genitori vengono addirittura interrogati contestualmente dai carabinieri. Nello stesso verbale appaiono più voci, che confermano e integrano dichiarazioni precedentemente rese, aggiungono dettagli, precisano, rettificano. Da alcune annotazioni di servizio dei militari sembra che testi e inquirenti lavorino in simbiosi anziché andare avanti ognuno per la propria strada. Tutto questo va avanti per due mesi, luglio e agosto. Va detto che un barlume di buon senso aveva illuminato uno dei marescialli impegnati nelle indagini, il quale dopo le prime denunce raccomandava al pm di disporre una serie di «audizioni protette» (fatte da uno specialista psicologo, nelle forme previste dalla legge, con tutte le garanzie del caso) per non disperdere la genuinità dei possibili riferimenti dei bambini attraverso una dilatazione del tempo dei loro ricordi e/o l’inquinamento del patrimonio di conoscenza dei piccoli dovuto al contatto con i genitori. Alla richiesta il pm risponde picche, limitandosi a nominare una psicologa suggerita dagli stessi carabinieri (altra anomalia) anziché di fiducia del suo ufficio. Viene incaricata una dottoressa 73enne, iscritta all’albo degli psicologi dal 1996, che oltre a svolgere una consulenza psicologica si mette a fare le indagini con i carabinieri andando con loro in giro, facendosi accompagnare dalle famiglie, effettuando sopralluoghi, in un caso anche accompagnando un bambino fin dentro la scuola per identificare i luoghi incriminati, chiarire le circostanze. Un’attività devastante. La strizzacervelli-detective, come vedremo, avrà un ruolo fondamentale nell’inchiesta.

Controlli senza esito
L’attività di pedinamento, intanto, rallenta perché - ammettono i carabinieri al pm - è estate e il personale scarseggia. Si arriva a settembre. Approfittando della chiusura della scuole per le vacanze, i militari installano sei telecamere e una ventina di microspie. Ogni angolo dell’asilo è controllato. Così dal 1° settembre fino al 12 ottobre (giorno in cui l’inchiesta diviene nota per via delle roboante perquisizione) viene registrata la vita dell’asilo dalle ore 7.30 alle ore 17.30, e cioè un’ora prima del trillo della campanella, un’ora e mezzo dopo la fine delle lezioni. Da questa invasiva, indispensabile, attività di controllo non esce fuori mezzo fotogramma o mezza parola da utilizzare in chiave accusatoria. Nulla di nulla. La cosa è ancor più singolare perché, sull’onda del passaparola, dei pettegolezzi di paese, di una sorta di inconscia emulazione, proprio a settembre (mentre l’asilo è imbottito di «cimici») in caserma arrivano altre 7-8 denunce di genitori che raccontano delle violenze subite dai propri figli dentro la scuola proprio in quei giorni nei quali, come è documentato, niente è accaduto. Per la difesa (avvocati Giosuè Naso e Fausto Coppi) ciò è significativo di cosa possa voler dire la suggestione reciproca e l’emulazione, con l’aggiunta di dettagli irraccontabili (mai riscontrati) su crocifissi bruciati, cuccioli di cani lanciati nel fuoco, cappucci indossati dai pedofili scimmiottando il diavolo, il lupo, la fatina cattiva. «La stessa narrazione - spiega l’avvocato Naso mentre visiona uno dei dvd - dimostra seri limiti di credibilità». Quello che dunque avveniva nell’asilo, sarebbe avvenuto anche fuori. Nella casa della maestra Patrizia prima. Poi in una villa che una certa sera, passeggiando per Rignano, un bambino accompagnato dal babbo riconosce senza indugi: è quella. Scattano perquisizioni, controlli sugli occupanti, sequestri di materiale. Risultato: nessuno. La notizia è una bufala. Come risultano panzane i riferimenti, contenuti nelle denunce, sull’esistenza di filmini e materiale pedopornografico nella disponibilità degli indagati: il 12 ottobre, dai sequestri di centinaia di dvd, cassette vhs, documentazione cartacea, foto, dagli accessi internet, dall’hard disk dei pc, non esce nulla. Niente di niente.

I medici
Così si passa a interrogare i pediatri dei bambini abusati. Un’azione assolutamente legittima, peccato che anziché limitarsi a formulare pertinenti interrogativi sullo stato fisico dei minori, gli inquirenti operino un indebito condizionamento informandoli del contenuto delle denunce. Nonostante ciò, i sanitari concordano sull’assoluta mancanza di segni di violenza. Al di là di normali patologie riferibili a mali di stagione, arrossamento della zona perianale per i vermi, a piccole perdite ematiche riconducibili a fragilità capillare, i medici dei piccoli spiegano di non aver mai rivelato una lontanissima attività d’abuso, «che altrimenti ci saremmo affrettati a denunciare». Si dispongono altri accertamenti al Bambino Gesù di Roma: un chirurgo pediatrico e una psicologica confermano l’assenza di abusi. Solo su una bimba c’è qualche timido dubbio per quel setto sospetto sull’imene, anche se il primario lo definisce «di probabile natura congenita».

Intanto i racconti dei figli raccolti dai genitori si fanno più crudi. Se prima si parlava del giochino del culetto, della patatina o del pipetto, dopo due mesi i riferimenti arrivano a tagli sul corpo, a buchi di aghi nelle mani e in testa. Di tutto questo dovrebbe essere rimasto segno, e invece nulla. I pediatri lo hanno escluso, i genitori non hanno mai visto un graffio, nessuno dei 16 bimbi ha mai detto «mamma, guarda, qui ho la bua». Possibile? Certo - rispondono gli inquirenti, psicologa compresa - se ciò è accaduto è perché erano stati terrorizzati al punto di credere che se avessero parlato i loro genitori sarebbero stati ammazzati. Non è finita. Tutto questo avviene in orario scolastico, mentre all’asilo lavorano 16 insegnanti di ruolo, due di sostegno, due ausiliari, cinque bidelli, tre cuoche e a turno un insegnante di religione, uno di ginnastica, uno di musica: dalle 28 alle 31 persone. Domanda: come si fa a portar via i bambini senza che nessuno veda nulla? Risposta del gip in ordinanza: che fosse possibile uscire dalla scuola è dimostrato dalla testimonianza di una vigilessa che ha visto, un giorno, i bambini camminare lungo il viottolo posteriore con due maestre (che guarda caso si scoprirà poi non essere quelle incriminate). Purtroppo per il gip, stando alle carte dell’inchiesta del pm, l’episodio sembra dimostrare l’esatto contrario, e cioè che non era possibile uscire da scuola senza essere visti. Inoltre le maestre, proprio alle vigilesse, spiegarono di essere lì per raggiungere sulla strada statale il pullman (troppo grande per manovrare nel piazzale dell’asilo) per una gita a Ponzano Romano.

Le registrazioni
Altro capitolo gravissimo è la mancata registrazione dei colloqui dei minori, in un procedimento penale e non per fini terapeutici, da parte della psicologa. Lo hanno fatto invece i genitori, che forse si sarebbero dovuti astenere visto che, per le modalità e i toni con cui hanno girato i video, con i bimbi costretti a mimare gesti erotici, hanno prodotto paradossalmente l’unico materiale «scottante» agli atti. Ci si dovrebbe soffermare inoltre sulle perizie fatte ai genitori dei bimbi, laddove emergono anche personalità disturbate, che vivono la sessualità in maniera inadeguata, alcune depresse e fanno uso di psicofarmaci. Si dovrebbe dire dell’autista, dell’uomo nero, del cingalese che si è scoperto non avere nemmeno la patente. Ci si dovrebbe interrogare sulla circostanza, clamorosa, che dai controlli dei telefoni, degli sms, dell’e-mail, non risultano frequentazioni fra gli indagati. Qualcuno dovrebbe chiedere conto alla domestica di una delle maestre che ha parlato di quando, qualche anno fa, a casa della donna restò una bambina perché oggi si è scoperto che fu proprio la mamma della bimba a chiedere la cortesia alla maestra perché faceva tardi col lavoro.

Se in corso d’opera è già caduta l’associazione per delinquere, non ci sarà da sorprendersi se il Riesame tirerà fuori di galera i presunti pedofili che, stando alle carte, non possono più nemmeno essere etichettati al condizionale.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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