Le scuse di Lula hanno reciso l’Ulivo planetario

Federico Guiglia

L'ultima delusione viene dall'ex operaio che non va in paradiso, il paradiso dei progressisti ispiratori. L'ultimo choc per la «nuova» sinistra alla ricerca di un'icona perduta o mai avuta, arriva con la confessione in diretta tv di Luiz Inacio Lula da Silva il quale ha chiesto, dunque, perdono. Perdono, perché lui, il presidente del Brasile e uomo-simbolo sia per i rivoluzionari che per i riformisti dei due mondi, nulla sapeva della «questione morale» che sta travolgendo esponenti del suo partito e del suo governo. Chissà se anche per lui ora varrà, almeno politicamente, il criterio del «non poteva non sapere», criterio col quale in Italia è stata giubilata un'intera classe dirigente «moderata»; e chissà se l'esempio transoceanico potrà almeno far ricredere chi crede che l'etica in politica sia una prerogativa quasi esclusiva della sinistra.
Ma il mesto annuncio a reti unificate del popolare Lula, che si sente tradito e si dichiara estraneo allo scandalo, rappresenta anche l'ennesimo crollo di fiducia e di passione per dei leader che nascono «di sinistra» e perciò diventano un punto di riferimento per il popolo di sinistra, salvo poi cambiare strada, idee, politica e comportamenti. Lula chiude un elenco che aveva aperto il Tony Blair dei primi e scoppiettanti anni. Anche lui era diventato un emblema dell'«Ulivo planetario», dei kennediani di casa nostra che avevano trovato una nuova speranza europea dopo il vecchio sogno americano, e che oggi devono rassegnarsi a non guardare più la sua «deriva guerrafondaia», il suo europeismo annacquato, il suo modello economico così poco laburista e la sua scelta d'anteporre il dovere della sicurezza ai diritti individuali. Si direbbe che pochi leader progressisti come Blair siano riusciti a demolire, d'un colpo e tutte insieme, le credenze e i valori tradizionalmente di sinistra.
Ma Tony non è il solo, pur essendo il più radicale, «revisionista». Altrettanto radicale ma in senso opposto si presenta il neo-esperimento di José Luis Rodríguez Zapatero, erede quasi irriconoscibile di Felipe González. Con lui il socialismo iberico ha perso la connotazione nazionale che l'aveva sempre caratterizzato, e che era stata apprezzata dagli elettori per quattordici lunghi anni prima dell'arrivo dei popolari di José María Aznar al governo. Zapatero è riuscito a dividere la Spagna sulla memoria e sul futuro, cioè sull'identità stessa di un Paese che mai avrebbe richiamato i suoi soldati in quel modo dall'Irak né accettato di trattare col separatismo armato dei baschi. E neppure avrebbe ingaggiato una battaglia così dura e puerile col cattolicesimo - a scuola, in Parlamento, in Chiesa: ovunque - in nome del niente, e non certo all'insegna di ideali di sinistra. Tant'è che nessun socialista d'Europa, nessun riformista dell'universo considera Zapatero una via, magari un po' originale ma tutto sommato interessante, da seguire. Al contrario.
E così il poker è svanito tutto, posto che dopo i lampi ormai spenti di Lula, Blair e Zapatero, il quarto uomo, il Bill Clinton dell'America «buona» e buonista, da tempo si dedica alla scrittura avendo abbandonato la politica attiva. Senza peraltro aver lasciato alcuna bussola ai democratici che ne hanno preso il posto di candidati o di leader, ma non il possesso della Casa Bianca.
Se a questo panorama di illusioni infrante s'aggiungono la probabile sconfitta del socialdemocratico Gerhard Schröder in Germania e l'improbabile rimonta dei socialisti francesi, si potrà capire la crisi che dilania la sinistra italiana, e che ne provoca le tante divisioni e formazioni. E forse anche la ragione del perché non sia un progressista il candidato designato dal centrosinistra per il 2006.
f.

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