Politica

Se la censura è dei Moratti, nessuno raccoglie firme

È più repressivo chiedere il sequestro di scatti in cui un fotografo spia l’intimità di una casa privata o cercare di bloccare la diffusione di un film in cui si indaga su morti sospette e inquinamento? Dilemma buono per i tanti che in questo periodo vivono tenendo perennemente in mano il termometro della libertà di stampa e di espressione in Italia. E che organizzano raccolte di firme contro le «inaccettabili» e «dittatoriali» querele di Berlusconi ai giornali che straparlano delle sue pudenda, salvo poi tacere quando le vie legali sono percorse da imprenditori più «simpatici» e illuminati. Come i Grandi Fratelli Moratti, per esempio.
La vicenda - ben illustrata sul magazine non profit Vita in questi giorni in edicola - vede i petrolieri milanesi opposti a un giovane fotografo e regista pugliese ed è vecchia di qualche mese, ma non ha mai titillato l’indignazione della stampa progressista. Più precisamente, il contenzioso risale a inizio anno, quando cominciò a circolare un documentario dal titolo «Oil»: un’inchiesta realizzata da Massimiliano Mazzotta a Sarroch, il paese del Cagliaritano in cui sorge la raffineria della Saras, il colosso petrolifero dei Moratti. Un docu-film che l’azienda sta cercando di boicottare, soprattutto da quando - il 26 maggio - in un incidente sul lavoro morirono tre operai di una ditta esterna addetti alla manutenzione.
In quel caso ci fu un profluvio di cordoglio, la vicinanza dei vertici aziendali ai familiari delle vittime, i festeggiamenti in tono minore per lo scudetto dell’Inter morattiana, il leader pd Franceschini che interrompeva il suo tour della Sicilia, la sinistra radicale e l’Idv che pretendevano severe condanne: insomma, l’Italia si stringeva attorno a Sarroch e la politica cavalcava il caso. Per qualche giorno. Poi, più nulla: né manifestazioni, né partiti che candidassero i sopravvissuti sull’onda dell’emozione popolare come accaduto per il rogo della Thyssen di Torino con il democratico Antonio Boccuzzi e il comunista italiano Ciro Argentino. D’altronde le elezioni in Sardegna si erano già tenute e i «cattivi» avevano simpatie per sinistra e ambientalismo (la moglie di Massimo Moratti, Milly, è un’attivista e consigliera comunale Pd): non valeva la pena di fare tanto casino.
Intanto stralci del film di Mazzotta sbocciavano ovunque nelle praterie di internet. Interviste ad abitanti, dipendenti, esperti e - per completezza - anche ai responsabili Saras, che ricordano come l’azienda abbia da sempre superato ogni ispezione ambientale e sulla sicurezza. Il quadro che Mazzotta dà della situazione appare comunque fosco, tra epidemiologi che mettono prudentemente in relazione le emissioni della raffineria con un aumento della mortalità per cancro, ricerche sull’impatto ambientale e denunce (anonime) sulle carenze della sicurezza delle imprese dell’indotto. Come ad esempio la Comesa per cui lavoravano i tre operai morti. Insomma, abbastanza perché in procura qualcuno si prendesse la briga di indagare. E abbastanza perché i legali della Saras, Angelo Luminoso e Guido Chessa Miglior, richiedessero il sequestro del film. Una richiesta non accolta ma contro la quale è stato fatto ricorso e alla quale - giusto per non lasciare nulla di intentato - è seguita la citazione per diffamazione, la richiesta di danni e di ritiro completo del documentario.
Eppure una presa di posizione tanto dura da parte dei Moratti non ha scandalizzato granché. Giusto sui blog, qualcuno ha alzato la voce. Nessuna campagna di stampa che parlasse di «intimidazioni», «bavaglio», eccetera. C’è un regista che fa un film di denuncia, il bersaglio si ritiene danneggiato e si difende legalmente. Punto. E pazienza se a questo procedimento in corso si affianca anche una sorta di diffida sotterranea, con gli avvocati della Saras che si affrettano ad inviare letterine «informative» ad ogni festival o organizzazione che pensa di poter dare visibilità a «Oil». I Moratti sono considerati amici del centrosinistra? Ne discende che le diffide dei Moratti sono democratiche e legittime. Così, nel frattempo, rassegne come il Festival del reportage ambientale di Arenzano, nel Genovese, si trovano tra due fuochi: da una parte la programmazione della proiezione del film, dall’altra la Saras che «avvisa» come i contenuti siano a rischio diffamazione, ventilando eventuali ritorsioni legali contro chi dovesse riprenderli e diffonderli. E chi si arrischia a mettersi contro un potentato economico come la Saras? Ma questa non è mica la censura berlusconiana. È solo la normale dialettica tra accusa e difesa.

Dialettica democratica, si intende.

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